La parola greca che significa immagine è la radice sia di “icona”, nell’accezione valida per tutto l’Oriente cristiano, sia di “ancona”, il termine usato in Italia fin dal secolo XII per designare una pittura su tavola di soggetto religioso posta su un altare. Può prendere da qui lo spunto un breve discorso sui rapporti tra la pittura russa di icone e la cultura occidentale, in specie italiana, a partire dal comune fondamento paleocristiano e bizantino. Risalgono infatti
ai secoli VI e VII, provenendo per lo più dal monte Sinai e dall’Egitto, le più antiche icone superstiti. La tematica plurisecolare delle icone, giustamente qualificate
non solo come “l’espressione perfetta e la più diretta che esista del sentimento religioso e del sentimento estetico propri della cristianità orientale” ma anche e soprattutto come”«l’espressione della fusione profonda dei due sentimenti” – si afferma e fiorisce particolarmente nella civiltà bizantina, dove assume specifici connotati figurativi e una posizione centrale nello spazio delle chiese, legandosi intimamente al culto; e divenendo, a differenza delle immagini sacre del Medioevo di Occidente, parte integrante della liturgia. Di capitale importanza per comprendere la concezione bizantina dell’icona, trasmessa poi alla Russia cristianizzata, è il gravissimo conflitto che nei secoli VIII e IX contrappose, invero con motivazioni non esclusivamente religiose, gli iconoclasti o distruttori delle immagini e coloro che le veneravano.
Nel lungo conflitto era stato chiamato in causa il dogma stesso dell’Incarnazione: come aveva scritto Giovanni Damasceno “se tu vedi che l’Incorporeo si è fatto uomo per te, allora puoi esprimere la sua immagine umana. Poiché l’Invisibile, incarnandosi, si è mostrato visibile, è ovvio che puoi dipingere l’immagine di chi è stato visto”. È questo il vero fondamento di quella teologia dell’icona a cui tra gli altri si applicò con grande sottigliezza il santo monaco Teodoro Studita. Muovendo anch’egli dall’affermazione di fede che “l’Invisibile si è reso visibile”, Teodoro riteneva che l’immagine potesse rappresentare la persona, o ipostasi, del Verbo incarnato, secondo un particolare modo di presenza del Prototipo nella materialità dell’icona.
Occorre riconoscere che una simile teologia non trova riscontro nella cristianità di Occidente, la quale non ha mai affrontato a un pari livello speculativo il problema del rapporto tra culto e immagini sacre, assegnando a queste un ruolo assai più circoscritto che nella Chiesa ortodossa. Qui l’icona è veramente inseparabile dalla vita liturgica; benedetta dal sacerdote diviene un sacramentale. Grazie alla sua presenza ogni comune abitazione della vecchia Russia si era trasformata in “chiesa domestica”, in cui l’icona assumeva una funzione molto diversa, ad esempio, da quella dei dipinti di privata devozione nelle case italiane del Tre e Quattrocento. Analogamente l’uso ortodosso di recare in processione le icone non poteva comportare eventi simili a quello verificatosi nei 1311 a Siena, allorché la grande tavola della Maestà di Duccio di Buoninsegna venne al suo compimento solennemente trasferita dalla bottega dell’artista al Duomo. L’accompagnavano preti e frati, le autorità del Comune e uno stuolo di popolani con le loro donne e i fanciulli, in un corteo motivato non solo dalle devozioni per la Madre di Dio e per i santi protettori della città, ma pure da sentimenti di orgoglio civico e dal desiderio di rendere omaggio a un sommo pittore: cosa del tutto estranea alla creazione delle icone il cui autore è per lo più sconosciuto ai suoi contemporanei. L’apprezzamento (che nel Cinquecento italiano diverrà vera e propria esaltazione) dell’artista in quanto tale stabilisce un netto discrimine con la cultura cristiana d’Oriente, dove il margine inventivo del pittore di icone restò a lungo grandemente limitato da una precisa tradizione figurativa, densa di significati teologici, alla quale egli era tenuto a conformarsi, dovendo altresì prepararsi al suo compito con l’ascesi e la preghiera. In effetti la pittura di icone tanto a Bisanzio quanto in Russia si è spesso svolta in stretto contatto coi monasteri, e monaci furono, a cominciare dal grande Andrej Rublev, non pochi pittori. Ecco perché, rispetto alle opere dei grandi maestri di tutti i secoli, nel suo valore proprio di simbolo l’icona va posta “un poco a parte” allo stesso modo che la Bibbia si colloca “al di sopra della letteratura e della poesia universale”.
La diversità tra due aree di cultura con preciso riferimento alla Russia e all’Italia, è stata sottolineata da Michail Alpatov. “Un paragone tra pittura di icone e pittura italiana è reso più difficile dal fatto che si tratta di due mondi che si escludono a vicenda, in confronto con la pittura italiana del Rinascimento, le icone possono apparire qualcosa di arcaico”; visti da Oriente, i dipinti italiani “sembrano frutto di freddo raziocinio, di abile mestiere”. La difficoltà di riconoscere i rispettivi reali valori potrà esser superata quando entrambi i mondi saranno ugualmente conosciuti. Il Concilio tridentino, nel rilanciare le immagini sacre a sfida col protestantesimo, si sarebbe limitato a richiedere agli artisti di conformarsi al dogma, e di evitare rappresentazioni insolite e procaci, senza altrimenti restringerne la libertà espressiva. In Russia invece, ancora nel Settecento i valori tradizionali continuavano a trovare difensori come l’arciprete Avakkum, che così scherniva i pittori modernisti del suo tempo: “Ecco che dipingono l’Emmanuele, il Salvatore, col volto tondo, le labbra rosse, i capelli inanellati, muscoli gonfi… proprio come un tedesco dal gran ventre: non gli manca che una sciabola appesa ai fianchi potenti”.
L’espressione di questa distanza è nell’icona di Rublev, dove l’alto significato teologico – Dio come amore di sé che si dona al mondo – è espresso in una composizione di classica armonia che lega tra loro le tre bellissime parvenze angeliche ed evoca valori trascendenti. La Trinità come altre tavole di Rublev faceva parte in origine di una iconostasi, ossia della parete interposta nelle chiese tra il santuario e la navata. L’iconostasi assunse in Russia tra la fine del Tre e il principio del Quattrocento un aspetto nuovo, come organico complesso di tavole dipinte disposte in altezza a differenti livelli: in alto dominava la presentazione della Deisis (= Cristo fiancheggiato dalla Madre di Dio e da san Giovanni Battista) affiancata da patriarchi e profeti, angeli e santi, mentre al centro si apriva la porta regale recante l’immagine dell’Annunciazione; e storie evangeliche relative alle dodici maggiori feste dell’anno liturgico bizantino facevano parte di norma delle iconostasi.
Nel tardo Cinquecento e nel secolo XVII, in Russia l’arte delle icone, almeno secondo un’opinione assai diffusa, scade fortemente di tono: assimilate a miniature e spesso arricchite di rivestimenti aggiunte in metalli preziosi, il mestiere finisce col prevalere, nella ricerca di elementi piacevoli e curiosi. Come lamenta il narratore in un suggestivo racconto di Nikolajlijeskov, L’Angelo sigillato, riflettente la mentalità dei “Vecchi credenti”, “il diletto degli occhi appanna la purezza della mente… Si è perduta l’ispirazione elevata e tutto ora viene dalla terra e respira passioni terrene”.
Nel primo Novecento, all’indubbio processo di occidentalizzazione della pittura sacra russa, fa sull’opposto versante da singolare contrappeso la scoperta delle icone, che continua oggi non solo nell’acquisizione di opere antiche, ma nella produzione di scuole dell’Icona, che vorrebbero accostarsi al mistero sacramentale da cui è nata in Oriente. Un mondo affascinante e per buona parte ancora da scoprire.
(Rielaborazione e riduzione di un testo di G. A. Dell’Acqua, in Il grande libro delle Icone russe, Ed Paoline).