Qui si parla di Maiuscola e di minuscole. Dando la dovuta importanza all’una e alle altre, ma con le distinzioni che si debbono. Il tema è molto vasto. Va dalle ricerche di una Tradizione che vorrebbe conglobare i vari vissuti antropologici e religiosi che si sono espressi lungo i secoli, in aree culturali molto diverse fra loro e con moti religiosi apparentemente contrastanti; ma con l’accentuazione che invece si deve dare nel cristianesimo a quello che si considera la Tradizione intoccabile e le tradizioni derivate che come tali sono soggette

al flusso della storia. Come si può subito evincere, è possibile ingenerare equivoci, e conseguentemente dispute che toccano il farsi e umano e religioso.

 Passarsi una fede

L’origine etimologica del termine indica un “consegnare”, da una generazione all’altra, qualcosa che si ritiene di utilità per la sopravvivenza di un gruppo nell’idea che lo sorregge. Avviene dentro un ordine disciplinato da regole, per precetti consolidati, a formare un sistema. Ma certo tocca il punto d’origine. Che per organizzazioni religiose, o per movimenti ideologici, fa capo a una fede, e al nocciolo che la definisce una volta per sempre. L’accostamento a quella fede avviene secondo sensibilità proprie del tempo che si vive, delle conoscenze che si hanno, e delle improprietà che purtroppo accompagnano sempre il cammino nella storia. E proprio perché, nel trasmettere, si mettono in moto forze positive e negative: un passaggio si definisce per un abbandono a favore di una novità. È così, ad esempio, che il deposito della fede cristiana può essere confuso con quanto si è rivestito delle modalità che via via hanno cercato di rendere visibile l’invisibile. Non sarebbe poi così lontano dalla realtà dire che qualcuno confonde la Pasqua con la colomba che esce (o non esce) dal duomo di Firenze in una spettacolare striscia di fuoco; o che per qualcuno il Natale del Signore è l’impossibilità di separare la convenzione del 25 dicembre dal fatto irriducibile della sua incarnazione.

 Reinventarsi nel presente

Consegnare dunque al presente quanto si è ricevuto dal passato: ma senza tradimenti sulla sostanza. Perché, e qui dico en passant, l’etimologia del termine tradizione ha la stessa radice del verbo tradire: è facile trasmettere tradendo invece che semplicemente consegnare. O meglio: è doveroso tradire le tradizioni per mantenere l’integrità della Tradizione. Ma talvolta si tradisce la Tradizione. E avviene quando, in nome della modernità – modernità del linguaggio e modernità dei costumi – si mette in discussione quanto sorregge oltre le mode un gruppo, sia esso una nazione o una religione. “In ogni epoca bisogna combattere per impedire che la tradizione venga sopraffatta dal conformismo che cerca di soffocarla” (W. Benjamin). Conformismo che ha visto nel secolo scorso erigere monumenti di protervia, in nome della razza; e a sostegno di capi che hanno condotto a genocidi in nome di un passato oltretutto mai esistito: chi sono gli indecifrabili ariani che dettero sponda alla negazione di ebrei, e di quanti erano considerati brutti per Hitler, cristiani compresi? Anche per questa domanda, nel Vaticano 2^ si è mutata una tradizione, che li voleva perfidi, per una coscienza nuova di una figliolanza unica degli Ebrei con il Dio apparso in Gesù Cristo; e in Lui di tutti gli uomini e le donne della terra nelle loro credenze: “La chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e dottrine che, quantunque in molti punti differiscono da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini” (Nostra Aetate)”. Quanto questa abbia cambiato azioni e pensieri, lo si vede dalla resistenza dei lefreviani.  

 I tradizionalismi impropri

Un paragrafo merita di non essere dimenticato nella trattazione proposta in questo dossier. E riguarda il richiamo che si fa alla tradizione, per rafforzare le proprie ideologie da parte di partiti politici, o dei gruppi che in termini vaghi si possono richiamare ai cosiddetti “atei devoti”. Non in nome di una fede cristiana nel suo nocciolo indistruttibile – il riconoscimento che Dio è misericordia, nel Figlio che si dà per la salvezza di tutta l’umanità = e questa è Tradizione), ma sotto l’egida di segni e di culture, o di un proprio accomodato modo di concepire quanto è naturale e quanto no, essi vorrebbero riproporre un passato che chiamano tradizionale. Al di là di posizioni facilmente contestabili per le contraddizioni di cui vivono, quei gruppi mostrano di non vivere se non di folclore, che non è neppure accettevolmente religioso. Ma la pericolosità di quanto propongono deve allarmare: se in nome della tradizione usano il crocifisso come arma per cacciare lo straniero; se si nutrono di presepi e non di eucarestia per condannare chi di fede vive; se compongono cose e mezzi per il profitto del proprio gruppo a scapito della carità che si fa politica, e dunque attenzione a tutta la città degli uomini. Credo che la Chiesa debba avvertirsi di quello che si nasconde dentro le pieghe di questi tradizionalisti: che poi chiamano moralismi i richiami alla coerenza almeno etica della vita, se non proprio evangelica. C’è una mistica che sta nascendo dentro i rimandi alla tradizione, intesa come usi e costumi, e non come presenza del Signore nella vita che vive del succedersi della storia. È estraneo alla natura di quelli lo specifico cristiano: eppure li si sta prendendo sottogamba. Con quali esiti – finora appena accennati – lo si vede nei ricatti neppure tanto nascosti con cui certe amministrazioni trattano le chiese quando le sentono ostili ai propri proclami; o nelle disobbedienze ecclesiali allo spirito e alla lettera dell’ultimo concilio, che si trovano sostenute da una destra politica che si rifà al pensiero di J. Evola.

 Distinguere per fedeltà

Dunque: Tradizione è trasmissione delle verità essenziali. Il cattolicesimo – che ha nelle parrocchie il miglior luogo per l’accoglienza dei cammini così diversificati dei suoi aderenti – diventa per ciò stesso una fragilità. Nel paradosso evangelico una opportunità di salvezza, ma nell’immediato della vita una possibile frana, se non verso una eresia conclamata, certo dentro uno scisma sotterraneo che prima o poi travolgerà i più deboli. Come possono convivere spiritismi con tavoli che traballano; e spiritualismi che fissano il sole per avere un segno di apparizione; e orientalismi camuffati da preghiera – con la sobrietà di una liturgia che chiede piccoli gesti per lasciare a Lui lo spazio dell’incontro? E come possono sorreggersi gruppi che si rifanno a maestri di spiritualità che prendono sostanza dalle emozioni di una appartenenza circoscritta, con quel popolo di Dio che è fatto da gagliardi e da deboli, da sani e ammalati?

Se si parla di distinzioni chiare tra tradizioni e Tradizione, è per tramandare quello che a nostra volta abbiamo ricevuto, come scrive l’apostolo Paolo: senza tradimenti, ma senza arroccamenti su forme che hanno detto e non dicono più. Con la preoccupazione prudente di chi non vuole buttare acqua sporca e bambino; e tuttavia non vuole lasciarlo, quel bambino che si apre alla novità del vangelo, in un’acqua che potrebbe intorbidarne la vista. Così come è facile entrare nel magma di verità composte a proprio convenienza – convenienza che non sempre è di malafede, ma resta ugualmente pericolosa – così è facile scadere in un dogmatismo, questo sì impuro, che si costruisce una identità con presunte radici tradizionali. Per esemplificare oltre il cristianesimo: dagli stessi musulmani ci viene detto che non è Corano e non è Islam quanto alcuni di loro predicano e praticano in nome di Maometto. Sarà ancora possibile alla Chiesa di Gesù Cristo avvertire che nulla ha a che fare, con la fede consegnata dagli apostoli, quello che praticano e predicano alcuni che si ergono a paladini della religione cristiana, intesa come confine e non come orizzonte?