Non si vorrebbe che questo dossier passasse accanto agli altri come una delle tante dissertazioni. Il titolo dice di per sé che non c’è il dopo se non c’è un prima. Anzi “un primo”: primo per importanza e primo perché precede. E primo per tutti: non solo per gli infedeli di altri continenti, o per i nuovi apostati d’Europa. “L’evangelizzazione propriamente detta è il primo annuncio della salvezza a chi, per ragioni varie, non ne è a conoscenza o ancora non crede”. Questo paragrafo del n. 23 della nota pastorale del Consiglio permanente dei Vescovi italiani su “L’iniziazione cristiana” immette con notevole chiarezza sul binario di questo nostro dossier. Intanto distinguendo  il primo-annuncio dalla iniziazione cristiana; indicandone i destinatari privilegiati, se così si può dire; delineandone il senso: “… la notizia di un fatto, e quel fatto riguarda una persona, Gesù di Nazareth che è risorto dai morti: che è la lieta novella dell’amore di Dio”.

 I destinatari

Risulta abbastanza scontato, nelle prassi pastorali che si danno le nostre comunità cristiane, che il primo-annuncio sia per coloro che non conoscono ancora, per chi conoscendo non crede, e per chi professa la fede senza troppa convinzione. Non è altrettanto ovvio nel sentire comune – sia dei pastori sia dei frequentanti – la necessità che anche i “cristiani ferventi” si lascino raggiungere dal primo-annuncio. Se sono ferventi non sono già stati raggiunti? Si dice molto, si fanno molte analisi, ci si flagella credo ormai in ogni sacrestia sui responsi deludenti che danno i sondaggi sul sentire cristiano degli italiani: sono da scandalo le percentuali di chi crede a metà nel paradiso e per nulla all’inferno, di chi non distingue tra resurrezione e reincarnazione, del fai-da-te di chi prende la Chiesa come un self-service; così come nelle scelte politiche dei cristiani della domenica (gli altri non sono sondabili, ma sono lì da vedere) l’avvenimento cristiano, l’amore di Dio che si fa carne tra noi, non ha alcuna parentela con l’esercizio della convivenza umana, e con proclami (anche ufficiali, anche firmati da preti e frati) che indicano la differenza non come una sofferenza, ma come una necessaria meta. Il problema vero è che questa Chiesa nella quale viviamo non sa passare dalle indicazioni pur chiare e forti dei documenti a quello strappo con se stessa che inevitabilmente comporta una revisione di prassi pastorali consolidate nella secchezza. C’è qualcuno che oggi si converte al passaggio delle processioni del Corpus Domini?, tanto per fare un esempio. Eppure nessuno in Italia si azzarda ad essere il primo a rimetterne in discussione e l’origine e la storia. E infatti la prima obiezione che coglie sicuramente uno o due dei lettori sarà: rimettere in discussione l’Eucarestia? A dire come non si annuncia nulla se non si ascolta. C’è una paura non evangelica che impedisce di affrontare gli snodi veri. E non sempre è una paura colpevole: secoli di largo consenso cattolico hanno certamente allungato il tunnel che ci separa dalle buone ragioni dei fratelli separati nella confessione di fede: se non si accettano le loro buone ragioni, come si può fare ecumenismo? Eppure una fetta grandissima è radicalmente, e silenziosamente convinta, che l’ecumenismo si fa se loro si avvicinano a noi. Che il papa dica il contrario, in questo caso non conta: non conta mai per certi ferventi quando non coincide con le proprie convinzioni (ricordano i più attempati certi giornaletti che davano del demonio a Paolo VI, diffusi non da massoni, ma da araldi della fede cattolica?). La prima questione che il nostro dossier vuole suscitare è dunque questa: si è davvero convinti che una svolta, per quanto difficile e certamente lacerante, non può essere rimandata?

 

Si tratta di una svolta

Ecco dunque la seconda questione: non si confonda, ancora una volta, l’iniziazione con il primo-annuncio. Questa confusione ha perpetuato modelli, e ne ha innovati, lavorando blandamente sui fianchi e non colpendo al cuore del nodo ecclesiale: se Gesù è stato detto, ed è stato detto senza sovrapposizioni teologiche, così che davvero diventasse Lui colui che chiama alle successive profondità dell’intimità con Lui. Il capitolo secondo della nota citata potrebbe diventare un ottimo testo base per la riflessione di svolta di una comunità: meglio sarebbe se fosse in unità con il Vescovo, poiché senza un suo coraggio e la sua profezia è difficile uscir fuori dai rimedi dei panniccelli caldi per la febbre in piena estate. È un testo che dice il che cosa e il come. Dice che il primo-annuncio non sta nel dare alcune risposte ad alcune esigenze: non sta nel conformare liturgicamente la messa prevalentemente (ed erroneamente) alla mensa; nel rendere di coscienza e non più legislativo il digiuno del venerdì; nel creare dei catechismi rinnovati, di cui si colga finalmente il metodo e non la fissità; nel fare corsi per fidanzati, e non percorsi ( i primi che si avvalgono di nozioni, i secondi di attenzione ai rospi non digeriti di una “fede imparata” e mai davvero vissuta). Ci chiediamo mai se le immagini in circolazione di Dio, e tante che scendono dai pulpiti, colgono che Dio è interessato e ha a che fare con la felicità dell’uomo? Prendere sul serio le difficoltà che ha la gente a credere, è imparare a dialogare con il non credente che è in ciascuno di noi, come ha detto il card. Martini, sia quel che sia la sua vocazione. Il primo-annuncio – ce lo diremo in questo dossier – chiede un “primo ascolto”: prima di arrivare a dire che Gesù è figlio di Dio, per tre secoli si sono raccontati il Gesù di Nazareth. Pretendere di dare subito un prodotto finale è ingenuità che sta costando all’Africa le lotte sanguinarie tra cristiani, e alle nostre comunità l’inaridimento di itinerari prosciugati dai sassi e dalle spine. Prendere sul serio gli interlocutori: che chiederà inevitabilmente una attenzione ai singoli, alle loro storie, ai loro fallimenti e alla loro possibilità di ripresa.

 

Una sfida non rimandabile

Dunque, il primo-annuncio non sta nel come vivere bene la vita, ma come vivere lo scontro drammatico tra vita e morte. Si rivolge a persone in crisi di senso: e solo “ferventi” senza intelligenza possono chiamarsi fuori. Ecco perché il primo-annuncio può cominciare da ogni dove: certo così cambia tutto rispetto alle prassi, e non cambia nulla rispetto al Vangelo. È la conversione di un atteggiamento intellettuale, ed è realistica solo sui tempi lunghi. Il che vuol dire rinunciare ai risultati immediati, e questo è la più difficile delle virtù che pure si praticano tra i cristiani. Occorre rinunciare all’apparire in quantità o in potenza. E la strada che pure si è appena intrapresa – figurare attraverso i media televisivi – non è via di evangelizzazione, non è la strada connotata di Emmaus: d’altra parte, basta vedere come le tivù amministrate dalle Diocesi si presentano con palinsesti ricalcati dalle grosse tv nazionali. Dove sta l’annuncio? Accettare di essere marginali è la sfida che il primo-annuncio pone alle nostre comunità esauste. Una sfida che manda in soffitta metodi collaudati, posizioni acquisite, pastorali di categoria: e adeguamenti troppo acritici alla modernità. Una sfida che sa cogliere segni dello Spirito già diffusi sul territorio. Osservare senza pregiudizi, imparare senza preclusioni, imitare con riconoscenza. Qualcuno potrebbe a buona ragione sostenere che più che cambiare pastorale, occorrerebbe puntare a cambiare i pastori: se sono diversi loro, le occasioni di intersezione del Vangelo con la vita si moltiplicano. E se i pastori sono davvero sintonizzati sul Signore di Emmaus – da discepoli essi stessi in cammino – sicuramente riescono ad “incontrare” nell’annuncio. Succede già da qualche parte.