Naturalmente ai parroci andava meglio quando andava bene. Le catechiste non dovevano essere fabbricate: erano lì già fatte e solerti per sempre; e i sacri lini della sacrestia non si dovevano rimettere a una lavanderia: la manodopera era lì, gratuita e ben affidata. Può essere una forzatura eccessiva? Che si fossero ridotte, con l’andare del tempo, a una supplenza comoda e sottopagata, era una evidenza mai ammessa ad alta voce. Questo è un mea culpa a cui
non si può sfuggire. Certo non si potrà imputare a questo modo di trattare il dono della vita religiosa nelle comunità parrocchiali il venir meno delle vocazioni, come qualcuno ha rimproverato un po’ avventatamente (è pur sempre questione di Spirito Santo!): ma certo non si è fatto molto per affrontare insieme l’indiscutibile crisi in cui versano le famiglie religiose.
Le vicissitudini storiche dell’affermarsi della vita consacrata (dal monachesimo dei primi secoli alla vita apostolica dell’ottocento) hanno via via manifestato e l’indispensabilità di questo ramo per la Chiesa, e insieme la relatività del suo manifestarsi. Certamente della radicalità primaria non è rimasta, in alcune forme, una certezza di immagine. Se nella Chiesa i preti sono ordinati alla comunione e i laici all’operare, gli uomini e le donne di vita consacrata hanno l’ordine della prospettiva: qui per indicare l’altrove, l’escaton portato qui. Questo non ha solo richiesto una separazione senza distacco – la regola di vita di san Benedetto è ancora lì ad indicare la via maestra; ha richiesto e richiede una visibilità dell’invisibile, attraverso una diversità di modi nella vita che sappiano interrogare, e dunque condurre. L’appropriarsi, per supplenza, delle attività che sarebbero state finalmente riconosciute dal Concilio a tutto il popolo di Dio, ha spiazzato fortemente la presenza, e il senso di una appartenenza di molte famiglie religiose. Senza numeri eclatanti, ma certamente in una continuità non corrosa, le vocazioni monacali nelle vecchie e nuove forme non hanno risentito nel passaggio da prima a dopo il Concilio. Ed è facile capirne il perché: il carisma della diversità che chiama la prospettiva verso cui siamo diretti è stato meglio conservato nei monasteri, meno pericolosamente annacquato dalla operatività dentro cui molte famiglie religiose hanno pensato di definirsi rispetto al mondo.
La Vita consecrata del 1994 dà una risposta molto più esaustiva di quanto non avesse articolato il Perfectae caritatis conciliare. Dice innanzitutto che la vita religiosa è segno della Trinità, confessione della vita trinitaria: e cioè la grazia che abbatte i dinamismi disgregatori presenti nel cuore dell’uomo. È quindi affidato a questo ramo della Chiesa di rendere visibili le meraviglie che Dio può operare, già sin d’ora, attraverso la vita di donne e uomini chiamati a mostrare il fascino e la nostalgia della bellezza divina. È la dimensione escatologica che già si manifesta nel presente.
Dice poi che è segno di fraternità Che è la carità espressa nella vita comune, ma lo è se diventa un segno per il territorio. Ho personalmente fatto una battaglia, e l’ho persa, perché alcune suore anziane, ancora autosufficienti, potessero continuare ad abitare in parrocchia, prive di incarichi, ma investite del segno di quella presenza che richiama l’altrove, e che chiama la disponibilità della comunità nella loro vecchiaia. Si è ritenuto più agevole per l’Istituto radunarle in un’unica e propria casa di riposo: non è più evangelico, oltre che più rispettoso della loro dignità umana, lasciare che fino all’ultimo possano sentirsi viva parte di quella Chiesa per la quale si sono votate?
E infine si sottolinea il segno di comunione nella Chiesa e per la Chiesa.. C’è qui tutta l’interrogazione su quella separazione, necessaria, che è diventata un distacco, pernicioso, dalla quotidianità e dalla visibilità delle comunità dei credenti. L’avere la cappella nelle proprie case ha significato per molte suore non frequentare mai l’Eucarestia domenicale con il popolo di Dio: che è un impoverimento non solo delle comunità, ma delle stesse religiose.
Molti parroci, orbi, hanno sfruttato le religiose, senza saper far fruttare il loro carisma autentico. Ma molte famiglie religiose non sanno ancora determinarsi a un cambiamento che faccia finalmente della loro vita non un accanimento terapeutico per sopravvivere alla morte di una forma, ma una risposta alla domanda che – non solo il Concilio, non solo il Sinodo, non solo il Papa – anche alcuni parroci, qua e là, sanno porre perché finalmente il loro carisma, purificato dalle situazioni storiche, finalmente si dispieghi per il bene di tutti, vescovi preti e laici.