Le domande che si pongono alla fede dei cristiani intrecciano storia e eternità, passando talvolta attraverso la radicalità della questione di Dio. Che Dio è quello che permette ora queste cose assurde della vita, che Dio è quello che sembra non rivelare fin da qui ai buoni un destino buono, quale felicità è in Dio, se la sua impronta nei giorni che si vivono è così distante da una immagine di felicità? C’è Dio?, è un grido che percuote i credenti delle nostre comunità più

degli altri quando sono attraversati dall’ingiustizia di questo mondo. Domande che si presentano quotidianamente. E non è sempre facile ricondurle nella prospettiva evangelica: “All’inizio non fu così, ma adesso si fa così”. Serve al catechista, e più ancora al predicatore contemporaneo (il colloquio spirituale è un po’ più facilitato dall’incontro personale che sminuzza le domande) una misura pigiata di fede propria, per assumere l’equilibrio richiesto nel muoversi tra chiamata teologica e risposta morale.

 

Rispondere al grido

Di fatto, non c’è a ben pensarci questione più assillante di questa: il giudizio sul mondo, e su di me, diventa un giudizio su Dio. Rispondere a questo grido non con le argomentazioni di sapienza umana, ma con la verità che scaturisce da ciò che ci è stato rivelato, è compito primario di un evangelizzatore: da esso dipende la speranza che conduce. Guardando alla storia, di fatto non c’è ordine, non c’è sistemazione. Ed è sul vissuto che la storia intreccia – non altro – che i cristiani misurano le proprie risposte alla vita. Rimandare tutto all’eternità, all’escaton, al dopo, non può rivelarsi una pia e insieme devastante delusione per chi non è raggiunto seriamente dal vangelo di Gesù? La predicazione sul giudizio, che ha monopolizzato le generazioni precedenti, non è sparita anche perché il paradigma è stato scentrato. E perché di fatto il mondo non è più convinto “quanto al peccato e alla giustizia”? Il giudizio non avviene staccato dalla vita. Avviene contemporaneamente alla vita. Ma certo ha il suo compimento dopo la morte, quando si interrompe il tempo, il tempo delle possibilità, e si avvera l’incontro con Dio, che si svela svelandosi nel Signore della gloria, e si svela svelandoci a noi stessi.

Per trovare la giusta comprensione, occorre liberare il terreno. Non è un giudizio improvviso né è terroristico, indotto da una predicazione che si avvitava su stessa: si usava molto impaurire con “il peccato mortale dell’ultimo momento”, che avrebbe potuto mandare a carte quarantotto tutta una vita virtuosa; o dalla minaccia che in quel giudizio apparirà tutto, ma proprio tutto, come una cloaca finalmente sventrata! Se c’è una verità che deve essere liberata alla luce della fede, è quella del giudizio: il Cristo appare nella gloria. È il giudizio del Figlio di Dio: “senza di Lui nulla è stato fatto di tutto ciò che esiste” e il mondo rimane sua proprietà. Anche se non vuole, anche se non l’hanno accolto. Se si vuole pensare da cristiani – essere cristiani nel modo di pensare – occorre partire da ciò che proclamiamo nelle liturgie: è Lui che viene, si rivolge al mondo, non siamo noi a presentarci a Lui. Non è differenza di poco conto: nel giudizio viene il Salvatore.

 

Il giudizio sul mondo

Altro che averne paura: abbiamo bisogno del giudizio, del giudizio di Dio. In un mondo dove i furbi sembrano avanzare, e con loro la rozzezza di una vita senza meta, di una giustizia che serve i ricchi e deride i poveri, occorre predicare il rovesciamento del giudizio del mondo. C’è paura a toccare certe zone in cui si è piantata la vita dei più, praticanti e no. Compiere un giudizio che stia nella luce di Colui che verrà a giudicare il mondo è affrontare di petto stili di vita mortiferi: lo si può fare solo accettando in partenza la possibilità dell’emarginazione. Si può predicare senza esemplificare sulle avidità alimentate dalla voglia di soldi, tanti soldi?; senza segnare a dito la competitività che per gradini diversi scende sino all’eccesso del doping per ragazzini?; o senza denunciare la corsa all’apparire, che non bada più ad affetti, neppure per sé? Forse, la paura di parlarne oggi scaturisce dalla percezione che il rovesciamento del giudizio sulle cose del mondo è davvero radicale. Il Cristo accantonato ed emarginato fino a quel momento apparirà in tutta la sua potenza, e con Lui saranno manifestati coloro che sono stati derisi dal mondo per essersi affidati a Lui. Verrà a giudicare i vivi e i morti, tutti. E giudicherà non tanto sull’uomo peccatore, ma sull’uomo che pecca apparendo bello, forte, soddisfatto. E dunque, se abbiamo cercato di fissarci in Lui, non possiamo temere: il giudizio non sarà sul nostro peccato – non è forse venuto per i peccatori? – ma sulla indifferenza o sulla boria nel peccato. Non potrà essere giudizio di condanna se non per chi si è auto-condannato alla autosufficienza; e dunque chi si è fissato nella difesa del suo peccato, e chi ha respinto, se non addirittura disprezzato, la solidarietà di una Chiesa nella ricerca della verità sul mondo e su di sé. Dunque il giudizio sarà nell’incontro con Cristo. Con “due” giudizi, quello particolare e quello universale? Chiarire che non ci sono tempi d’attesa – e non tanto perché in Dio non c’è tempo, ma perché Dio assume ciascuno nella sua interezza: “Oggi sarai con me in paradiso, oggi tu uomo” – è uscire dalla dimensione temporale per entrare in quella eterna. Ma è soprattutto far sapere che saremo giudicati ciascuno secondo la nostra vocazione, calata dentro le relazioni umane: vocazione dunque di insopprimibile responsabilità rispetto alla propria e all’altrui vita.

 

L’obbedienza della fede

Giudicati su che cosa? Nella parabola di Matteo sul giudizio: saremo giudicati sull’amore del prossimo (che disturba il nostro buon cuore nel suo bisogno di cibo e di relazione…) o saremo giudicati sull’amore per Lui che si nasconde in ogni prossimo? Saremo giudicati su azioni, omissioni, carattere, fedeltà, o saremo giudicati sulla fede in Lui? “Quando tornerà troverà la fede?”. Certo: sobrietà, temperanza, giustizia, purezza di intenti, sono manifestazione di un giusto atteggiamento umano. Ma quello che conta, è che saremo fissati per sempre sull’accettazione o sul rifiuto di Lui, come nostro unico redentore. È come se si dicesse: in chi hai messo la tua vita? In nessuno, e in nessuna cosa in modo assoluto, se non in Lui. È l’obbedienza della fede, è l’obbedienza totale nella morte: “nelle tue mani affido il mio spirito”. Come Gesù sulla croce, che può ripetere per sé nell’ultimo momento ciò che ha consegnato per tutta la vita. C’è il battesimo di desiderio: non può mancare nella predicazione sul giudizio l’invito al desiderio di consegnarsi per tempo, prima del tempo, per la mancanza di tempo, o di lucidità o di forza. (I cosiddetti testamenti spirituali – non fatti per parlare agli altri dopo la propria morte, ma per fissare per tempo il proprio cuore nel Salvatore – potrebbero finalmente riscoprire una degna opportunità). Ogni uomo, nel momento della morte è dunque eternamente giudicato, e conoscerà la pienezza del giudizio sulla storia. Lì, come ha scritto sant’Agostino, impareremo una volta per sempre “la giustizia di ogni divino giudizio”: e non solo di quell’ultimo, ma di tutti quelli che sono stati emessi finora, già nel tempo presente. E sarà un incontro definitivo.

In qualunque attimo venga lacerata la maglia della vita, ci imbattiamo in Lui, nell’unico giorno della sua Resurrezione. Unico giorno con il giorno del nostro incontro. Un incontro con Lui. Non c’è più un dopo, e non c’è più un aldilà. C’è Lui, il Signore, il redentore, colui che è venuto per la nostra salvezza. E dunque, la vita e la morte, e il giudizio, e ciò che si compie nel giudizio, avviene in Lui, nostra felicità. Quale paura del giudizio, se la nostra vita è con Lui, talvolta arrancando, ma con Lui? Quale paura se abbiamo conservato la fede? Davvero la predicazione sul giudizio di Dio non può più mancare a chi chiede speranza in un mondo lontano dalla fonte.

 

 

fuoritesto

“Perciò, anche se non sappiamo per quale giudizio Dio così faccia o così permetta che avvenga, lui presso il quale risiede somma virtù, somma sapienza e somma giustizia, e nel quale non v’è nessuna debolezza, nessuna temerità e nessuna iniquità: impariamo tuttavia — per la nostra salvezza — a non dar troppo peso a quei beni e a quei mali che vediamo essere comuni ai buoni e ai cattivi, e d’altra parte a ricercare quei beni che sono propri dei buoni e a fuggire quei mali che sono propri dei cattivi. E quando giungeremo a quel giudizio di Dio, il cui tempo vien detto esattamente giorno del giudizio e qualche volta giorno del Signore, riconosceremo la giustizia di ogni divino giudizio, non solo di quelli che verranno emessi allora, ma di tutti quelli che furono emessi dall’inizio e saranno stati emessi fino allora. E anche apparirà chiaro per quale giusto giudizio di Dio, ora molti, anzi tutti i divini giudizi, siano nascosti al senso e alla mente dei mortali; quantunque non sia celata alla fede dei buoni la giustizia di ciò che è celato” (s. Agostino).