Se le molte migliaia di persone, che stanno sul territorio della mia parrocchia e che ancora sono afflitte dall’obiezione Cristo sì, Chiesa no, si radunassero tutte insieme davanti al loro pastore, temo che vedrebbero la palese insofferenza di chi ritiene ormai datato il tema: sia perché soffre sempre nel vedere comunque sessantottismi ritardati; sia perché non sopporta che quegli anni di non poco conto anche per la fede siano stemperati in nostalgie da ex o rimessi in slogan

da rimasticamenti acerbi dei loro figli.

Ma se quelle migliaia di persone gli prestassero l’attenzione che ebbe inizialmente Paolo nell’Areopago, potrebbe sbattere via l’obiezione, senza sentirsi in colpa, almeno la colpa di non farli arrivare a un primo annuncio?

Ma quale primo annuncio e quale colpa! Vedere la gente sempre al filo di partenza del cristianesimo non è bello da portare. Eppure predicazioni anche buone non si può dire che le comunità cristiane non le abbiano ricevute.

Ma la prima regola della pastorale non è comunque l’ascolto dei battezzati, con l’interrogazione che porta al cuore delle speranze deluse, come è stato per i due di Emmaus?

L’ascolto? Ma l’ascolto è reciproco o non è. Anche i fedeli del popolo di Dio debbono ascoltare, e non solo i pastori. Faccio rilevamenti, do risposte, faccio verifiche, e ogni tanto si mettono a chiedere quello che tu hai pensato fosse ormai assodato, messo nel granaio una volta per sempre.

Ma una volta per sempre è la prima antiregola della pastorale: anche se la loro domanda suona come uno slogan, un attento pastore sa scorgervi dentro altre storie, altri ritorni all’indietro, altre esigenze ancor più elementari: un cristianesimo ormai senza Cristo, una religione senza Dio. Altro che sul filo di partenza! Ancor prima.

Credo la Chiesa

Un colloquio così credo sia il punto di partenza per fare un piano pastorale, che proponga una religione liberante. Anche perché già contiene il metodo che costruisce nell’oggi la Chiesa che gli uomini s’aspettano: il metodo del mettersi davanti, del non aver paura di dire la verità, e la verità tutta intera. La prima, appunto, è che la Chiesa non è un’istituzione fondata da Cristo e poi abbandonata alle alterne vicende dello sviluppo storico. Essa è “l’emanazione e la continuazione altrettanto terrena quanto misteriosa del Cristo” (Paolo VI): dunque il luogo da cui non si può prescindere per incontrarlo davvero, nella sua opera salvifica. E’ in essa e per mezzo di essa che Cristo continua a donarsi come Parola del Padre, a donare la grazia del perdono e della santificazione, a radunare l’umanità nella consolazione dello Spirito che rimane fino alla fine dei secoli con coloro che credono. Sono cose queste che qualcuno accantona, che non mette davanti, per paura di sentirsi dire: t’ascolteremo un’altra volta. Per la fondazione di una necessità della Chiesa si preferisce partire dagli argomenti apologetici del suo buon servizio all’umanità lungo tutti i secoli, facendo prevalere il guarire al salvare. Si tenta di farne apprezzare le opere di carità. E la pur grande Teresa di Calcutta diventa l’esempio più citato dell’importanza della Chiesa: e non per la sua fede che la può rendere più grande di papi e di vescovi, ma per il suo chinarsi sul giaciglio dei miseri della terra, un chinarsi che si disgiunge dalla sua fede. “Credo la Chiesa” confessa ogni mattina suor Teresa di Calcutta, come ogni battezzato recita. Ed è questo salto che non si può sfuggire, rimandando di cogliere il perché di questa presenza nel mondo. Dunque una prima traccia, per chi è afflitto dall’obiezione che abbiamo a tema, è dire la prima verità sulla Chiesa, scaldando il cuore a chi abbiamo già nelle nostre chiese con una catechesi che non sottrae nulla; e dando, a chi ne è lontano, un annuncio non ambiguo del mistero a cui li si chiama.

Cattolica e apostolica

Un secondo passo è una risposta agli insofferenti dell’istituzione. Come superare la ritrosia ormai connaturata in molti, di fronte a un’immagine di Chiesa come corpo gerarchico, come una società di distribuzione dei servizi, a cui si partecipa in base al capitale sociale, che è poi il posto che si è guadagnato con l’ordinazione ministeriale?

L’insofferenza per l’istituzione trova l’unica risposta nel proporre con forza l’istituzione. L’istituzione non come potere gerarchico, ma come comunità, quella descritta dai sommari di Atti, che restano ancor oggi lì a dire se è la Chiesa del Risorto: l’insegnamento degli Apostoli, il mettersi quotidiano davanti a Dio, lo spezzare del pane e la condivisione dei beni – nell’assiduità che dice la compagnia e non l’isolamento. L’istituzione non si sovrappone ai soggetti nella loro dinamica religiosa, ma sta ad integrare le loro domande di salvezza e a ricordare ai singoli la precedenza che la salvezza ha rispetto ad ogni attesa costruita sul proprio bisogno. Se si vuole una Chiesa dal volto vero, occorre rifare il tessuto delle relazioni all’interno delle comunità. Nella verità dei doni di ciascuno, e delle competenze di ciascuno. Gli organismi di partecipazione sono davvero il tempo e il luogo dove “si prende consiglio”? Se è il caso si rivedano, ma questo il tempo di opporsi restando soprattutto per quei laici che si lasciano tentare dalle parrocchie del vicino. La condivisione dei beni, o parte dalla condivisione della fede e del suo annuncio, oppure qualsiasi grossa opera di misericordia non incide sulla salvezza di coloro che guardano alla Chiesa dal di fuori. C’è una prassi dell’ascoltare a cui vanno costretti, opportunamente e importunamente, molti responsabili di comunità. Perché nasca una comunità calda, quella che invano hanno cercato nelle nostre assemblee domenicali i battezzati finiti nelle sette.

Misteriosa e visibile

Al di là della frase che fuori dal contesto può risultare manicheista, Journet scrivendo “La chiesa non evangelizza civilizzando, ma civilizza evangelizzando” sottolinea la terza attenzione per mostrare un volto vero di Chiesa: occuparsi dell’uomo solo a partire dell’occuparsi di Dio. E lo mostra, la Chiesa, nelle precedenze che allinea, nelle scelte che compie. C’è tutta una revisione su termini come missione e missioni, su carità e solidarietà, su mistero e organizzazione, su Eucarestie e processioni, che richiede di non essere rimandata. Ma soprattutto c’è una chiarezza da compiere per finalmente opporsi a qualsiasi riduzione della Chiesa a un centro di servizi religiosi, che si attivano più per una fedeltà alla ditta di famiglia che al bene di una fede personale che esige appartenenza.

Se si vuole una Chiesa dal volto trasparente, questo è il momento di non lasciarsi spaventare da una stagione dei dinieghi, che facciano riconoscere finalmente che la Chiesa non è padrona dei beni che dà, ma solo responsabile amministratrice. Quanto sono controproducenti certi funerali, certe prime comunioni, certe celebrazioni di cresima, certe messe feriali dedicate a gruppi o a singoli, certe prestazioni puramente socializzanti degli oratòri, e certe megaopere che son fatte in concorrenza alle amministrazioni laiche! E’ ancora Vangelo non opporre che i poveri saranno sempre con noi, a chi ti rimprovera (sentendosi da solo tanto Chiesa!) di sprecare profumi per il Signore? Una Chiesa che non esercitasse il dono della gratuità per Dio, certo meno gratificante e meno “utile” di quella per i poveri, sarebbe ancora la Chiesa di Cristo?

Con tutta l’intelligenza e la carità pastorale, certo, e con tutto l’equilibrio che scaturisce da un’attenzione al vissuto di ciascuno, è il tempo della proposta che passa attraverso i dinieghi, per arrivare alle affermazioni. Difficile, ma possibile. Senza sensi di colpa che stanno lì solo a scusare di non prendere posizione. C’è un grande argine tutto da percorrere per laici, che in nome della fede non si isolano e non isolano i loro pastori; che sono i primi convinti di una appartenenza che usa parole e progetti difficili per smantellare i pregiudizi di chi pensa ancora la Chiesa come un affare senza Cristo.