A una domanda tipo: “Che è successo?”, ci si sente rispondere: ”Un incidente stradale” oppure “Cristo è risorto”. Una notizia, che chiede un racconto del fatto. Il Qoelet non dice proprio così, ma ce lo suggerisce J.B. Metz: c’è un tempo per raccontare e un tempo per argomentare. Ed è questo che ha fatto nascere l’idea del presente dossier. Si contano a migliaia i catechisti, e a milioni le ore di catechesi per giovani e adulti, programmate nelle parrocchie e nei movimenti. Ma si conta anche la crisi,

nella visibilità dei risultati, che non risparmia il settore. E primo sintomo, la mancanza di una costante motivazione e di entusiasmo in chi è chiamato a questo servizio. Ci siamo chiesti, in redazione, che cosa separa i catechisti dal proprio impegno, prima ancora che dai loro ascoltatori. E ci siamo chiesti che cosa non attira alla catechesi la maggior parte della gente. Ci siamo naturalmente detti tutte le cose che la scienza della comunicazione oggi sa dire, e che qui non ripetiamo: e perché si conoscono da quasi tutti, e perché la nostra attenzione è stata spostata quasi magicamente da una domanda: “Perché non narriamo più la storia sacra?”. Sul perché non si racconti oggi in catechesi c’è un quasi mistero, se si considera che…

 Gli anni ‘70

Come tutti sanno, agli inizi degli anni settanta escono due documenti: il Direttorio catechistico generale, dalla Santa Sede; e, dalla Conferenza episcopale italiana, il Rinnovamento della Catechesi. Sono documenti che non indicano in modo esplicito la categoria del “narrare”. Si sottolinea la categoria storica, è vero, ma nella quasi unica accezione di quella “verità” storica che avrebbe poi prodotto qualche guasto: prima nella teologia, e di conseguenza nella catechesi. Tra i nostri lettori ci saranno certamente catechisti che quel periodo l’hanno vissuto. Per la prima volta le aule della scuola domenicale si sono riempite di cartelloni (sull’onda del tempo si chiamavano anche tatze-bao); i “maestri di catechismo” si sono cominciati a chiamare catechisti (prima questo nome era solo di quelli in terra di missione;) i banchi non vedevano più l’allineamento verticale, ma si stava in circolo, come doveva essere dei discepoli attorno a Gesù. C’erano tutte le premesse perché si passasse dall’implicito dei documenti all’esplicito: cosa faceva Gesù? Raccoglieva attorno a sé, e soprattutto parlava in parabole, e il suo parlare era compreso, perché raccontava la storia della vita di chi lo ascoltava. Che cosa fanno gli evangelisti? “Molti han posto mano a stendere un racconto degli avvenimenti verificatisi tra noi”, scrive Luca all’inizio del suo Vangelo: dall’irrompere del Verbo tra gli uomini, ai due di Emmaus che a loro volta narrano l’incontro con Lui.

E invece no. L’abbandono del racconto è a vantaggio di una presunta chiarezza dottrinale, fondata certo sui fatti, ma svestita dell’emozione del raccontare. Non che la parabola del figliol prodigo non figurasse a grandi lettere nel programma di ogni buon catechista: ma la si “teorizzava”, le si faceva dire tutto quello che doveva dire, per tutti allo stesso modo. Non è il narrare la principale preoccupazione. Principalmente ci si preoccupa di rendere visibile la credibilità della parabola, inserendola nel contesto storico, spiegando il diritto di eredità presso i contemporanei di Gesù, sottolineandone l’assoluta aderenza all’economia ambientale delle ghiande ai porci. Non si narra, si spiega. Non ci si incontra più con persone vive, accalorate di ciò che esse hanno visto, ma con persone raffreddate da ciò che hanno studiato.

Perché? E’ difficile dire ora. Una specie di comprensibile rivalsa sui metodi catechistici precedenti, certamente più poveri di cultura? Forse. Ma forse era il clima del tempo. E’ soprattutto allora che vengono rilette le pagine bibliche in chiave prevalentemente ermeneutica ed esegetica, isolando talvolta una espressione o una parola in modo così drastico da renderla teologicamente non vera proprio mentre si tenta di fondarne la verità storica. E’ vero che il testo è altro dal lettore, e il rispetto di quello chiede una particolare attenzione di quest’ultimo. Ma l’aver teorizzato una esasperata distanza scientifica ha condotto (talvolta, non sempre, ed è bene sottolinearlo) a una distanza dal cuore della storia biblica. Che è storia di un popolo, raccontata alle generazioni successive. E storia di un Dio che quel popolo si sceglie.

 

La Storia sacra

Sotto questa dicitura – parecchio ormai in disuso se non addirittura considerata “roba d’altri tempi” – si dice della narrazione di cose avvenute prima di Gesù, si dice soprattutto di quello che noi cristiani chiamiamo Antico Testamento. Per la verità, si narra soprattutto di persone: di Adamo ed Eva, di Noè e di Abramo, di Isacco di Giacobbe, di Mosè, del re Davide e della regina Ester, del sapiente Salomone e di Giuseppe venduto dai fratelli. Di persone in relazione strettissima con Javhe loro Dio, che li mette, tutti, sulla strada; e che condivide con loro la calura del giorno e il freddo della notte, le battaglie per la sopravvivenza e le feste della mietitura. La Storia Sacra prendeva il posto delle favole televisive di oggi, ed era presieduta la sera nelle case dal patriarca della famiglia: solo pochi decenni fa, mica un secolo. In fondo alla mia memoria ci stanno tutti quei nomi: ma hanno il suono della voce del nonno, e la sua gestualità sobria ma incisiva, e il ricordo della sua vita che era così vicina alle storie che raccontava. Dell’Antico e del Nuovo Testamento. La caratteristica di liberazione dal dubbio, che quei racconti serali avevano, e quella trasmissione di esperienza che passava dal narratore ai piccoli e grandi ascoltatori, producevano vita. Ed era vita di fede. Narrare è vita: questa cosa mi si è scritta su qualche parete del profondo prima ancora di saper compitare. Per questo da sempre amo i testimoni, quelli che hanno qualcosa da dire in prima persona. E per questo sono convinto che non si dà vita di fede se non ci si imbatte in un credente che tu senti venire da lontano. “L’evangelizzazione ha scelto il terreno preciso ma arido della parola dotta, che non è però l’oasi nel deserto della parola comune, svuotata come è di riferimento concreto e di risonanze affettivo-emotivo-esistenziali” (M: Pollo, in Note di Pastorale giovanile, 1981, n. 5). “Raccontare non è un istruire asettico: è trasmettere immagini che diventano proprie di chi ascolta. L’ascolto afferra la persona, anima e corpo: in questo incontro tra chi narra e coloro che prestano ascolto si gioca il vero significato umano della narrazione…Nel rapporto raccontare-ascoltare scatta la comunicazione, che rende possibile un supplemento di esistenza. Narrare gli avvenimenti che fondano la nostra fede: non consiste in ciò il compito della catechesi?” (G. Cravotta).

 

Narrare alla memoria

Anche oggi si raccontano storie. Ma c’è storia e storia. C’è la grande storia delle radici, e le piccole storie che fanno fuggire in avanti. Nella prima ci stanno i grandi miti dell’umanità la cui verità non sta nelle scienze esatte della storia, ma nelle paure, nei desideri di pienezza, nelle domande di senso degli uomini: è sacra, intoccabile nell’accezione di irrinunciabile (scartare il sole di Giosuè perché scientificamente impossibile, è precludersi le strade alla verità di significato di quel giorno di Dio con l’uomo). Le seconde storie non conducono da nessuna parte. Astrologia e sette, ricercate oggi anche dai giovani, e il male delle tante droghe, non stanno forse a rivendicare un diritto all’immaginazione dell’oltre che non è stata certo coltivata da telefilm o cartoni animati? Non sono forse una ricerca di appartenenza, in un vuoto di quella memoria che la loro generazione ha sofferto? “Quello che raccontarono i nostri padri, noi non terremo nascosto ai nostri figli, ma lo narreremo alla generazione futura”: E’ il salmo 78 che ci rimprovera oggi d’aver sottratto le radici di una fede che non regge perché non visibilizzata nelle risposte concrete di uomini come Abramo, Isacco e Giacobbe. Ma è tutta la Bibbia che ammonisce al narrare. In Tobia: “Narrate a tutti le cose mirabili che Dio ha fatto a vostro favore”. Nel salmo 66: “Orsù, ascoltate, quanti temete Dio, perché voglio narrarvi ciò che egli ha fatto all’anima mia”. E Geremia: “Venite, raccontiamo in Sion l’opera del Signore nostro Dio”. Fino a Luca: racconta di Gesù che, dopo una di quelle guarigioni che dovevano essere testimonianze di salvezza, investe il salvato del compito di evangelizzatore: “Va’ a casa dai tuoi, e dì loro quello che Dio ti ha fatto”.

Salvate tutte le buone ragioni del conoscere teologicamente meglio i misteri di Dio, il rapporto con la storia sacra – la nostra storia – può anche accettare errori formali (o verità parziali), se sono la condizione di una conoscenza d’amore: a volte la fede è meno profonda non per mancanza di dati, ma per lontananza dall’esistenza. Narrare è passare da fruitori di competenze altrui a protagonisti della Parola. Quando Giuseppe Roncalli, il papa Giovanni XXIII, s’incontra con gli Ebrei e li accoglie con un “Io sono il vostro fratello Giuseppe”, non disquisisce, ma narra qualcosa che appartiene alla storia che hanno in comune: ieri per oggi.

Poiché la storia sacra continua nella nostra domenica, l’auspicio è che si risalga presto la corrente che ci ha portato a quest’epoca post-narrativa.