È dottrina certissima – dice il catechismo cattolico – che, se la fede si può perdere, non si può tuttavia acquistare: a nessun mercato, per nessun diritto. È un dono di Dio, che qualcuno si ritrova, e altri no. Già questa è una tale “ingiustizia” rispetto al sentire l’uguaglianza di tutti gli uomini – tra loro, e dunque tanto più davanti a Dio – da diventare essa stessa oggetto di fede. Poiché non si tratta di esigere qualcosa di più rispetto ad altri, come nella parabola evangelica di Mt 20,1ss, ma di esigere qualcosa senza di cui manca la luce della verità che accompagni

 i giorni sulla terra. Ma non è questo il tema assegnato: anche se può essere una premessa indispensabile per qualsiasi operatore ecclesiale, porsi ogni tanto quesiti del genere. Anche solo per non mettere in dubbio che possa esistere qualcuno senza fede, e dunque per rispettare fino in fondo chi si dichiara così. Anche solo per lasciare che la fede rimanga tale: non una visione, non una convinzione, ma una tensione continua verso il compimento. Anche solo per tentare di coniugare il san Paolo della “fede che nasce dall’ascolto”, con la decifrazione di proposizioni che non sempre sono bibliche, solo perché lo si dichiara in monumentali documenti.

 

Le fedi del popolo di Dio

“Tra la fede di ciascun cristiano – sia pure il più umile – e la fede dell’insieme della Chiesa c’è sempre uno scambio di reciproco arricchimento. Ma questa fede corale della Chiesa dice molto di più di quanto possano esprimere le singole persone. È un di più fondato sulla presenza di Cristo che ha promesso: Dove sono due o più riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (C.d.A., 20). Luogo per eccellenza della trasmissione della fede è la celebrazione liturgica, specialmente quella della Pasqua domenicale. Ma quando il popolo di Dio si raduna non è necessariamente uno: è scomposto in mille attese che nascono da mille professioni di fede. Sintomatica, nell’agosto scorso, la giornata mondiale della gioventù. Quei giovani non erano certamente tutti dei papa-boys – come è stato superficialmente titolato dai quotidiani – ma alcuni sì; e alla domanda del Papa su chi stessero lì cercando, quella risposta: Jesus, rombo di tuono pentecostale, conteneva altre risposte, o almeno altre risonanze, dissimili sfumature. Credere, non credere: non è una questione di assoluti, ma di diversità talvolta stravolgenti. Non sempre chi sta in celebrazioni che toccano i gangli vitali – il nascere e il morire, la crescita e la memoria, la malattia e la festa – sta lì in unità. C’è una varietà di formulazioni e di espressioni che è ricchezza per la Chiesa: ma c’è anche un’insostenibile lacerazione che nasce dall’assenza di Colui che si celebra nel cuore di tanti. Un’assemblea liturgica è per lo più un’accolta di credenti e miscredenti, per usare un termine che ha oggi più di ieri una sua pregnanza. E, tra i miscredenti, il grado di curiosità non è lo stesso, così come il grado di partecipazione dei credenti non è lo stesso. E chi s’affaccia cerca comunque sempre un indizio: nelle persone prima che nei segni liturgici. E dunque il problema della fede sta più in chi dice di credere rispetto agli altri. È naturalmente e sempre una questione di superficialità, di annoiata monotonia, una questione di preti non convinti – per usare un’espressione dura ma efficace – e di laici obbligati. È anche una questione di sensibilità culturale: come si può oggi continuare a pensare gli atti di culto nello stesso modo in cui la disposizione di fede permeava gli atti della vita?

 

La fede è memoria

Una parte delle persone che vengono alle celebrazioni, vengono da una fede semplice, popolare: accontentandosi di poche cose e ben mirate. Un’altra parte vive la fede pure su poche cose e ben mirate, ma lasciandosi interrogare: non rinuncia a capire la complessità di una vita che voglia coniugarsi con la fede. Un’altra parte è appunto fatta da gente che capita per una occasione di risvolto semplicemente umano, da quei tempi e luoghi vitali che appunto sono il vivere, il morire ecc.: sono, quest’ultime, persone scettiche, indifferenti al fatto religioso. E tuttavia sono lì, a chiedere inavvertitamente ai segni un significato, e alle parole una smossa autentica. Per tutti si è ormai compiuto in gran parte quell’analfabetismo di ritorno tanto preannunciato negli anni settanta: non avesse avuto altro merito (e quanti, invece!) il Concilio ultimo ha scoperchiato il destino di un mondo che avrebbe a poco a poco perduto la memoria delle proprie radici cristiane. Oggi si celebra e si predica la fede in Gesù Cristo salvatore del mondo, figlio di Dio e Dio lui stesso, in un mondo che pronuncia il suo nome senza inginocchiarsi, senza riconoscerlo. È la presunzione del tutto infondata e per nulla messa in discussione di vivere in un mondo ancora cristiano, che impedisce ai credenti di lasciarsi interrogare nella propria fede dai non credenti. Quando in un funerale, o in una celebrazione di matrimonio, quando una creatura viene battezzata, la fede che si celebra è anche una fede che si pronuncia, fortunati quelli che pur non vedendo s’accorgono di una diversità che scende dal come si fanno le cose ultime e le cose prime della vita in una comunità che si dice cristiana. I non credenti non chiedono di essere convinti, ma di trovare persone convinte; chiedono una lealtà e una coerenza; non chiedono mestieranti di Dio. Solo celebrazioni che toccano i nervi scoperti della vita possono trasmettere la fede. Ci sono ricominciamenti che hanno la loro partenza proprio da occasionali incontri con celebrazioni dove il meno possibile fa schermo alla Parola che si incarna. E l’incarnazione avviene quando i segni non sono caricati di una noia mortale, dove il celebrare non diventa farraginoso al punto di nascondere il sacro, e le parole che annunciano la Parola non sono evase indipendentemente dal vocabolario religioso di chi ascolta.

 

La religio civilis

A me pare che sia venuto il tempo di un ritorno deciso all’annuncio, perché la mente e il cuore di tanti cristiani che frequentano le chiese sono piombati in una sonnolenza che impedisce loro di accedere ai misteri del piano superiore (Mc 14, 15), a quella definizione di sé che non parte dal proprio sentire, ma dall’accoglienza di ciò che il Maestro fa per noi. E annuncio deciso del vangelo vuol dire riprendere la parresia, quella franchezza che non s’adegua, che non annacqua, che non fa scambiare una vita di fede con le norme di una morale privata del nome di Gesù. Si è infatti diffusa, e credo che nessuno trovi difficoltà ad ammetterlo, una religio civilis che si serve delle strutture cristiane per i luoghi e i tempi dell’esistenza, il nascere, il morire ecc.: così il battesimo (che viene recepito come una benedizione sulla vita e non come una consacrazione della vita in Cristo morto e risorto) celebra la festa del buon risultato della fecondità, e di conseguenza chiede lo slittamento di mesi che arrivano fino all’anno per presentare un bambino già cresciuto alla golosità di parenti e amici; e un funerale vede presentarsi parenti a chiedere il suggello della vita finita, più che una domanda di vita eterna, con una richiesta di discorso funebre che vuole solennemente riconoscere i morti a consolazione dei sopravvissuti; e chi non conosce la fatica per opporsi agli apparati dei matrimoni, che sono il traguardo mostrato ai piccoli e agli incliti della ricchezza che la famiglia ha accumulato.

Questi sono i momenti giusti per un giusto celebrare: che usa tutta l’intelligenza liturgica, e tutta la necessaria provocazione per far uscire dalle effimeri attese. ”Voi vi aspettate, ma io vi dico”: c’è da imparare una leggerezza accoppiata alla forza dell’annuncio, che chiama, che rimette in cammino, che rende davvero protagonisti di quell’atto di culto che celebra la fede. Occorre ovviare all’effimero umano, per avviare alla pienezza che l’umanità di Cristo riversa sugli uomini. Ecco il perché dell’annuncio leale, che ristrutturi le attese sia di chi frequentemente è assiduo, sia di capita per convenienza umana agli atti di culto: una ristrutturazione delle parole che no suonano più come nell’evangelo. L’oggetto primario della fede cristiana, che è l’abbandono al Signore conosciuto come padre, come salvatore, come paraclito, è la linea portante di ogni annuncio che voglia avere la luce della verità. Ed è solo questo il modo che permette una tenerezza vera: ed è la sincerità di una professione di fede come questa che fa ricominciare tanti; e che avverte tanti altri del di più dell’avvenimento cristiano.

 

La sobrietà della fede

Uno stesso atto di culto può rispondere alle diversificate attese di chi si è raccolto in una assemblea liturgica? L’indifferente, lo scettico, l’incerto, chi si ferma sulla soglia a spiare, il non credente, il catecumeno, chi sta ricominciando, il credente autentico? Ma: il piccolo e il grande, il malato e il sano? Credo di sì, se l’annuncio si nutre di sobrietà. La sobrietà chiede una attenzione all’essenziale che permette allo Spirito di raggiungere tutti. Non ci sono, e non ci possono essere, schemi precostituiti o regole esteriori. È un atteggiamento interiore che permette a ciascuno di avere Dio davanti a sé: con la convinzione di un prete sulle cose che contano, e con la testimonianza della comunità che è coerente con ciò che canta. Su questo spirito interiore non si chiamerà mai a sufficienza. Eppure è l’ostacolo che impedisce a chi non crede di accompagnarsi a chi crede. Forse occorre una sobrietà della teologia: certe elucubrazioni sono ancora evangeliche? Senza infantili fondamentalismi, occorre tuttavia chiedersi se la potenza dei distinguo teologici oggi non impedisce un annuncio chiaro: l’elementare carità che consiste nel non tener lontano nessuno dal Signore. Un messaggio che non restituisca la parola alla gente, perché a sua volta annunci, è ancora vangelo? Che impatto ha l’Effatà nella celebrazione di Battesimo! Più di una volta si sono aperti orecchi, e poi gli occhi, a chi era entrato spettatore sordo e cieco nella celebrazione di quel sacramento. La fede, come ricorda la guarigione del sordomuto, avviene appartati dalla folla, fuori dal frastuono del mondo e fuori dal frastuono di certe chiese: dove non c’è sobrietà che prepara al miracolo dell’ascolto, è ben difficile che si parli bene e a tutti. Io da sempre sto con il cardinal Lercaro: che non voleva le messe dei ragazzi, perché la messa è di tutti. E se è di tutti, è per ciascuno: che si trovi nei panni di Zaccheo o in quelli di Paolo, di chi cerca, di chi pensa d’aver trovato. E di chi non cerca ma s’imbatte: e ne riporta il colpo.