Imparare a vivere insieme non è facile. Solitamente, chi viene da un altro mondo, s’affaccia sul nostro con un carico di sentimenti – attesa, paura, orgoglio – che non facilita i primi approcci. Ci sono anche storie e geografie, che devono essere digerite: come negare il pregiudizio verso culture – quelli dall’Albania, e alcuni dall’Est – che non hanno fatto della responsabilità della fatica una componente del lavoro? In forza di che cosa gli sarebbe tutto e subito dovuto? Che pretendono? Perché sfidano una chiesa

da cui hanno solo ricevuto da quando sono arrivati qui, e che neppure conoscono? Chi gli ha insegnato – o chi non gli ha mai rimproverato – quella prepotenza, che di fronte a un rifiuto diventa violenza verbale, ma non solo, una facilità dello sputo?

Se voi vi mettete nel circolo Caritas della comunità a trattare di come accogliere lo straniero, non potete pensarvi così bravi da non aspettarvi preliminarmente obiezioni così, e domande come queste. Potete avere un gruppo di persone che hanno già spiritualmente maturato uno spirito di accoglienza: ma essi devono essere condotti a dare il polso del sentire comune. Se non arrivano quei rilievi, bando alle ipocrisie: qualcuno sta solo accantonando. E quella che ora vi può sembrare solo delicatezza, di fatto è una mancanza di elaborazione comunitaria dei propri sentimenti, che inevitabilmente rallenterà e ostacolerà il futuro. Perché, e la Scrittura da sempre lo insegna, noi siamo stranieri persino a nostro padre e a nostra madre: allo straniero si dà generosa ospitalità se accetta le regole della stessa ospitalità, finché diventa intimo a noi.

 

Il sentire in comunità

Il primo impatto ha prodotto anche nelle migliori comunità cristiane un rigetto, di cui restano code di non poco conto. Di fronte a iniziative che mirano alla convivenza, ci sono riserve, quando non addirittura resistenze. Il primo compito è quello di una educazione allo straniero, che sappia partire anche da dati sociologici (non è un fenomeno congiunturale, la nostra economia ha e avrà sempre più bisogno di loro, e ne ha bisogno per l’immissione di nuova linfa demografica in un paese che invecchia), ma soprattutto si rifaccia allo stile biblico della sacralità dello straniero. Se i motivi utilitaristici (quelli sociologici) convincono più facilmente – e anche le popolazioni più riottose, vedi il Nord-est, che da una campagna molto prossima a motivazioni razzistiche si è smosso verso una convivenza che ha smunto parecchi pregiudizi – quelli spirituali permettono una fondazione più duratura. Tutta la predicazione e la catechesi devono sapersi imbottire di esemplificazioni che aiutino la purezza del giudizio verso uomini e donne che sono davanti a Dio uguali allo stesso modo nostro; ma che davanti agli altri popoli sono le vittime destinate di sfruttamento delle loro terre, di guerre non sempre disinteressate, di conflitti etnici e di produzioni di armi che li hanno come vittime destinate. C’è una responsabilità del mondo cristiano che non può non essere denunciata anche nel più piccolo angolo della nostra Chiesa in Italia. E se l’assalto alla “tavola dei saziati” preme a volte disordinatamente – è da ricordare che le prime migrazioni dall’Albania furono nel segno di una televisione che ci mostrava come il paese di Bengodi, l’America vicina? – si deve pur assumere ciascuno la responsabilità di un pianeta disegnato a fettine: dove l’azzurro di chi sta bene annega nel nero di chi sta male. Nella formazione delle coscienze – e per tutta la comunità, non solo per il gruppo missionario – occorre prendere atto che erano comodi i neretti a cui si mandavano briciole, ma che rimanevano là. Predicare la provvidenza di un flusso migratorio che ci scomoda, è più difficile, perché mette in gioco le categorie della diversità che, bene o male, si erano ormai piegate a una normalità della vita – salvo poi ad escludere, nel nostro stesso mondo, i “diversi”, quelli che non rientrano nelle regole del sentire comune, appunto.

 

La Provvidenza del bisogno

C’è, e in questo è provvidenziale, un processo che apre le nostre Chiese a un essere evangelizzati di nuovo, e proprio da questa immissione di cultura con valori e storie diverse, che non sempre sono inferiori alla nostra. Viene meglio essere umili tra gente che si mette alla pari, più difficile con persone che – cinesi o africane del Centro del Continente – hanno un senso smodato della propria superiorità. Più stridente lo stile di vita con chi è del tutto dipendente dalla nostra civiltà, dal nostro buon cuore, piuttosto che dalla convinzione della loro intrinseca dignità di persone. Più cogente la necessità di evangelizzare, di pronunciare cioè il nome di Gesù, ricoperti noi della sobrietà che non scandalizza, e che riconosce la condivisione come verità che discende da una terra di tutti, perché di Dio. Cristo è presente nei poveri: ecco un tema di annuncio che è poco sentito nella solidificazione delle coscienze delle nostre comunità. E quando viene con forza pronunciato, ha come risposta una insofferenza che rasenta il rigetto.

Un’educazione alla carità è precedente alle opere: è essenziale alla natura del fatto cristiano sentirsi chiamati a dare la novità del vangelo come primo atto di carità. Solo così tutte le opere che ne discendono non sono momentanee supplenze, ma il costitutivo dell’essenzialità cristiana. Da questo punto di vista l’azione di Chiesa che si svolge in un determinato territorio assume tutte le direttrici. Così tutti i diversi soggetti impegnati nella pastorale, i Consigli parrocchiali, i gruppi, le diaconie che si formano davanti ai bisogni, tendono al fine dell’evangelizzare. Si è ormai consolidata l’idea – un po’ meno la fattibilità – che accanto alla casa della preghiera e alla casa della formazione cristiana, ci sia anche la casa della carità: una casa in cui accogliere, ascoltare, condividere con i più poveri. Ci sono parecchi esempi ormai diffusi: dai Centri di primo ascolto a case di ospitalità per i vari bisogni. E le caratteristiche sono diverse, a secondo dei bisogni che si riflettono sul territorio. Così diversa è la chiamata per le emergenze delle comunità che stanno sulle rive dello sbarco, e quelle dell’interno, a cui si rivolgono quelli che vogliono una stabilità sul territorio. Ma ciascuno deve poter dare una risposta coerente, attraverso quelle opere-segno dell’amore di Dio per i poveri.

 

Una funzione pedagogica coerente

Una difficoltà che si manifesta dappertutto è il carico di scomodità che le persone portano con sé quando bussano alla porta delle comunità. Per un verso si vorrebbe essere generosi fino all’eroismo; per un altro verso ci sono soggetti che indispongono al servizio. Faccio riferimento a chi è violento nelle richieste, a chi ne approfitta, a chi si stabilisce nel mendicare come se fosse un lavoro, a chi innesca le guerre tra poveri ingaggiando rivalità. Nella mia comunità ci siamo fermati più volte per richiamarci a una ovvietà: è più facile rispondere a chi si mostra grato, a chi non pretende, a chi accetta un progetto di uscita verso l’indipendenza. E più volte siamo ripartiti col dirci che la povertà prima sta nel non riconoscersi una dignità.

Tuttavia nelle cose che si fanno, si deve tener conto del superamento della logica dell’assistenzialismo. Non sempre è facile superare le resistenze di una sponda, e di quella opposta, dei volontari: quelli che sono per la carità cieca, e quelli che manifestano la volontà educativa dei servizi che si prestano; quelli dunque che badano alla sola gratuità, e quelli che badano alla sola dignità. La composizione delle due qualità è possibile, basta un poco di intelligenza caritativa.

Ad esempio il servizio di porta giornaliero: una elemosina individuale, che non viene per un po’ di tempo negata a nessuno, ma che mantiene per quantità l’indicazione di un supporto occasionale, un’elemosina appunto. Quando il bussare si prolunga per troppo tempo, nonostante prima le sollecitazioni di trovarsi un posto di lavoro e poi le indicazioni delle opere diocesane preposte a un progetto, li si invita a non tornare: torneranno ancora, anche se più raramente, ma si è posta una distanza che dovrebbe aiutare a riconsiderare il loro stato di vita.

Se ogni settimana c’è il servizio viveri per chi ha una famiglia, una residenza in campo profughi: è un aiuto che definisce l’essenzialità degli acquisti, che chiede di uscire dall’anonimato, in un colloquio che accompagni la donazione. Si creano così conoscenze che indirizzano verso soluzioni meno marginalizzate.

Se si è fatto nascere il servizio casa, per chi, pur avendo un reddito da lavoro fisso, non trova un appartamento decente per la diffidenza dei proprietari verso gli stranieri: si impegna la responsabilità giuridica della parrocchia, che forma un progetto di accompagnamento per il ricongiungimento familiare, esigendo serietà nel rispondere agli impegni. Si innesca così un processo di conoscenza che, se non elimina del tutto la diffidenza, ne abbassa il livello. La severità nell’esigere è essa stessa condizione del riconoscimento vero di una dignità.

 

Promuovere l’appartenenza

Tutte le opere che scendono dalla carità verso i fratelli sono destinate a rendere familiare lo straniero. È normale che in un primo tempo le attenzioni siano contraddistinte da una diversità: se si fa un corso di lingua italiana per adulti e una integrazione scolastica per i ragazzi, è perché si vuole superare la distanza, così riconoscendo le differenze. E se si è rispettosi del loro credo musulmano o serbo-ortodosso, non si rinuncia a una integrazione sociale che mostra l’identità cristiana. Così, il dare in un primo tempo la possibilità di celebrazioni cattoliche nella loro lingua, non può essere il modello dentro cui si perpetua una ghettizzazione. Ci sono opere che mantengono il rispetto, e altre che aiutano il superamento delle fasi contingenti. Così pure, nella comunità, si deve essere avvertiti di non fare degli stranieri delle presenze esotiche, che arricchiscono lo spettacolo liturgico o paraliturgico: solo quando sono fratelli, perché hanno la nostra stessa parola, possono sentirsi a casa loro, nel servizio ministeriale della comunità. Per cominciare, occorre solo creare un senso di civiltà elementare, che curi gli spettri talvolta impercettibili che ci portiamo appresso. Le bambine che corrono col chador sui nostri campi d’oratorio sono le immagini più vere di una accoglienza senza pregiudizi: né dentro la nostra civiltà, né davanti a Dio.