L’evangelo, la buona notizia che fa buona la vita, è la radice da cui sgorgano i discepoli di Gesù. Esso ci è dato nelle quattro versioni che Marco, Matteo, Luca e Giovanni hanno appreso nelle loro Chiese e hanno consegnato alla Chiesa che sarebbe venuta dopo di loro. Nella accentuazione che conosciamo secondo ogni evangelista, possiamo trovare la risposta alle domande che ci facciamo, e ci fanno: quando uno può dire di essere credente di Gesù Cristo, suo discepolo?

quando si rende evidente che si è stati raggiunti dall’Evangelo? Sono le quattro voci di un unico coro, che possono divenire un metodo per un percorso di evangelizzazione, soprattutto per le comunità di antica memoria cristiana, dunque le nostre, che praticano senza più l’entusiasmo della fede, senza più l’impeto della missione, senza la felicità di evangelizzare, che è “la vocazione propria della Chiesa, la sua identità profonda” (Evangelii Nuntiandi, n. 14).

Sono quattro ispirazioni che non esistono separatamente, e tuttavia non sono sempre compresenti allo stesso modo: sono la descrizione di una fedeltà che si raggiunge a poco a poco, e di una fede la cui luce si scopre man mano si procede. Possono diventare la mappa di comunità parrocchiali e di gruppi, per interrogarsi su ciò che costituisce il nucleo della propria fede: nucleo che è sovraccaricato di segni, di pratiche e di credenze mitiche, che non solo lo nascondono, ma possono inaridirlo. Una mappa che dice il contenuto dell’evangelizzazione e la sostanza della trasmissione.

 

Marco, o il cambio di mentalità

È il vangelo della conversione, del mutamento, della separazione dalle proprie attese. È stato definito il vangelo dei catecumeni, e in questa direzione è da affrontare da chi fa il punto della propria purezza di fede. Essere rimandati a qualcos’altro sempre: ecco il primo costitutivo dell’uomo evangelizzato. Vedere Gesù così come è: un uomo grande, che fa miracoli, ma che chiede fiducia al di fuori dei miracoli; e dunque chiede una decisione per lui: decisione che interroga la vita, che non lascia nelle abitudini infantili del religioso, che stabilisce un rapporto adulto di fiducia nell’immagine del Figlio che si consegna al Padre. È dunque una chiamata all’ascolto, perché possa avvenire il cambio di mentalità: “Insegnava loro molte cose in parabole e diceva loro nel suo insegnamento: Ascoltate” (Mc 4,2-3). Solo chi raccoglie l’invito all’ascolto è rimandato a qualcos’altro: a una intimità con Lui che gli svela il mistero grande del Regno di Dio (Mc 4,11). Che il catecumenato sia una categoria da ripristinare anche per gli adulti battezzati, è la pratica traduzione della nuova-evangelizzazione, se la si vuol prendere sul serio. Anche se comporta modifiche importanti delle attese e delle pratiche delle comunità.

 

Matteo, o della fraternità

“Il vangelo di Matteo offre al neo-battezzato tutta l’istruzione necessaria per il suo pieno inserimento nella comunità, per imparare il mistero della presenza di Gesù nella Chiesa” (card. Martini). L’uomo è evangelizzato quando accetta l’abbraccio dei segni di salvezza che la Chiesa gli offre. Segni che lo precedono, e dunque lo confortano, per una fatica impossibile che gli è risparmiata; lo precedono, e dunque lo convincono della salvezza, perché non la fa discendere dai propri atti. La Chiesa come la fraternità: fuori dunque dall’individualismo del credere, dentro una appartenenza che costruisce, fuori dal radunarsi per contare. Rifiuta, l’uomo evangelizzato, di usare i metodi del mondo, i metodi del potere. Se fa della chiesa un corpo, è perché succeda che lo Spirito finalmente parli, per suggerire e per condurre, per mettersi a disposizione di chi è povero. Non si preoccupa dei risultati – sarete perseguitati – e prende gli applausi del mondo come un consenso che indica un cedimento già avvenuto. Una buona comunità serve il vangelo, e dunque permette ai suoi aderenti di essere raggiunti dal vangelo, se bada a non rinchiudersi mentre si interroga sulla propria identità, e sul proprio Maestro. Certo, nell’opinione corrente la Chiesa pone problemi per certe ristrettezze di vedute e per certe invadenze di campo che sembrano connotarla. Ma la distinzione – che pure si deve affermare – tra Cristo e la Chiesa non è così radicale da permettere di seguire l’Uno senza l’altra. Una fraternità senza fratelli, come sarebbe possibile? Eppure la presenza di Gesù è connotata dall’incontro di due o più (Mt 10,40).

 

Luca, o della missione

L’uomo evangelizzato, in forza del battesimo, sa di dover portare l’annuncio di salvezza a chi ancora non l’ha ricevuto, sa di portare qualcosa che non è suo; è conscio di non poter piegare l’annuncio a sé, alla propria convenienza. È dunque, l’uomo evangelizzato, uno che cerca continuamente l’oggi del vangelo per se stesso, per non tradire quelli a cui annuncia. Dunque un compito dato che non appartiene a chi è mandato. È il vangelo di chi va. La missione è il riconoscimento di un invio: la Chiesa è data per andare oltre se stessa, verso il Regno. E in vista del Regno, a cambiare le strutture di peccato nel mondo.

Perciò l’itineranza mi pare l’immagine più appropriata per descrivere la Chiesa, e, in essa, i cristiani, come coloro che mostrano il vangelo se superano l’immobilità. Fissità, staticità, immutabilità, e tanto più l’inerzia, sono parole che non appartengono al vocabolario del discepolo. Ci si interroga sulla natura stessa di Chiesa, per chiedersi sempre se sta servendo se stessa o il Regno per il quale essa è, e nel quale sparirà. Evangelizzati per il Regno vuol dire non temere di riconoscere sbagli: non è la stessa Chiesa che ha scelto i testi scritturistici letti nella liturgia, testi che criticano i comportamenti della Chiesa e la invitano a correggersi?

 

Giovanni, o la testimonianza

È vangelo di contemplazione, di abbandono a Dio. L’uomo evangelizzato si nutre di precetti, si arma di opere buone, ma alla fine rimette tutto al Signore. Presta i suoi piedi, ma riconosce continuamente la grazia che agisce nella sua vita, e questa annuncia primariamente. Non si presenta carico di gente che ha guarito, ma della forza che riconosce venuta da Dio per guarire chi gli si è affidato. È uno che predica il Regno, e si indirizza alla vita eterna (Gv 17,3). Insegue l’essenziale, pur afflitto dalla sua debolezza: anzi, sa fare della sua debolezza una forza per invocare salvezza. Non è più superbo, l’uomo evangelizzato: conosce la grandezza della meta e la pochezza dei suoi passi. Riconosce il Signore anche nella fatica, e passa un po’ di questo riconoscimento a chi avvicina. L’uomo evangelizzato si sorprende per la consolazione che vede uscire da sé e passare nelle persone: è testimone a se stesso, prima che agli altri, di essere beneficiario e portatore dello Spirito Consolatore. A tratti, non in pienezza: ma s’accorge che lo Spirito abita in lui.

 

Evangelizzati, dunque evangelizzatori.

L’uomo che ha tempo per il Vangelo, per ascoltarlo e per annunciarlo, è certamente evangelizzato. Lo vedrà dai frutti: non prenderà la vita cristiana, e le responsabilità nella Chiesa, come un dovere, ma come una benedizione; non priverà l’annuncio evangelico del suo carattere essenzialmente liberante, né lo appiattirà sul buon senso umano. Cercherà di vivere insieme: a chi crede come lui per attingere ricchezza; e insieme a chi non crede per condividere ciò che ha ricevuto. Diffonderà stupore, perché non lascerà più credere al mondo che la buona notizia sia un catalogo di norme morali: nel suo piccolo (non sarà mai sottolineata a sufficienza la coscienza che permane del proprio limite), fa riconoscere l’incontro con Gesù che libera dalle grettezze e dalle paure.