Dopo una sordina durata qualche quinquennio nell’annaspare che la post-modernità ha inflitto alla pastorale tradizionale – solo lambita dal Concilio – con una spinta nuova si è rimessa al centro dell’evangelizzazione la parrocchia “grembo della fede”. E da allora si è vista emergere con più decisione la coscienza del malessere che serpeggia nelle comunità. Titubanti a dare voce a quel malessere sono stati per molto tempo proprio gli addetti al lavoro. Nel suo viaggio attraverso l’Italia cattolica, Marco Politi

(Il ritorno di Dio, ed Mondatori) ha avuto occasione per scrivere un libro molto interessante “sulla vitalità prorompente” del cattolicesimo italiano.

Nella post-modernità

Un ritratto, proprio perché testimoniale e non sociologico, che coniuga il bene che c’è con le interrogazioni sulle crisi che pure sono macroscopiche: i ritardi nell’accorgersi che il mondo è cambiato, senza che sia cambiato in profondità il linguaggio di chi evangelizza; una grande presenza nel sociale, ma con una perdita di senso evangelico proporzionalmente inversa, per una lentezza ad accorgersi della persona che vuol essere raggiunta come una persona singolare, in questa post-modernità dell’individualismo.

È come se si dicesse che fa parte della fede essere messi in minoranza: non solo perché l’interpersonalità riduce le relazioni, ma perché la sostanza dell’annuncio si profila solo per un piccolo resto. Nelle pagine 258-270 del libro citato c’è un colloquio con De Rita che suggerisco di leggere per completare questo dossier: per avvertirsi sulla Chiesa in minore (cosa diversa da Chiesa in minoranza), che le viene dalle opere con cui è descritta – e si lascia descrivere – in grande. Tra l’indifferenza del 92% ormai dei battezzati non praticanti, la presenza cristiana è letta come un grande cartello etico per altro snobbato, o come un mega-pronto soccorso di tutte le emarginazioni che lo Stato non riesce a curare. La distanza tra cultura e vangelo si amplia ogni giorno di più, e la pastorale è sempre più debole nel dare risposte al vissuto degli uomini. Lo stesso linguaggio usato nelle argomentazioni etiche non ha sintonia con il vocabolario reale dell’uomo, così come la lingua liturgica risulta ostica e lontana nei concetti che “predicano, invece di pregare”. E così diventa sempre meno significativa la Chiesa per chi vuole elaborare le proprie convinzioni.

Le sette avranno pure un fascino in sé che attrae: ma quanto sono servite dall’assenza di fascino di una Chiesa che si promuove ad agenzia della saggezza umana, senza l’attenzione dovuta alla quotidianità degli atti di vita? Rimettere al centro la parrocchia è stata una risposta di indicazione di cammino. Ma quale parrocchia che sia significativa? Ora sta, davanti alla Chiesa, tutto il compito di ridirsi in quale parrocchia: non certo ricalcata sui modelli precedenti, ma capace di stare in mezzo alla complessità e alle contraddizioni del tempo presente, da protagonista senza volersi impalcare a primadonna.

 

Titubanti a dar voce al malessere

Ma non sembra che si possa davvero modellare una nuova immagine di parrocchia, se prima non si introietta il bisogno di una profonda riforma della Chiesa: incominciata con il Concilio, essa non ha ancora toccato i gangli vitali. Ci si è sicuramente preparati: la frequenza dei pochi è di una qualità neppure paragonabile a qualche decennio fa. Ma il divario tra chi si sente comunità e chi si limita a praticare la messa si allarga sempre di più. L’andate ad annunciare il vangelo che conclude le celebrazioni eucaristiche non ha ancora preso corpo, non riesce a farsi missione. E’ un malessere che c’è, anche se non ancora ammesso da tutti. È però finalmente detto ad alta voce. Si tentano risposte, non tutte del tutto accettabili.

Per dare risposte accettabili, serve una convinzione sul nocciolo dell’essere Chiesa. Una spolverata di spiritualità, o un maquillage delle forme anche linguistiche nei testi liturgici – quando addirittura non sono adeguamenti a mode new age – chiaramente non bastano per una riforma della Chiesa che possa dare di sé l’immagine di quella provvisorietà di fronte al Regno per la quale si definisce e di cui s’arricchisce e arricchisce. Per molti motivi, non tutti gli addetti ai lavori sono pronti a una radicale riforma, che si potrebbe sintetizzare in una Chiesa povera di sostegni esterni, ma capace di ricentrarsi sul cuore del vangelo. E’ una strada che non si percorre volentieri, soprattutto da chi non vuol vedere quanto gli anni precedenti hanno fatto intravedere: e cioè che la strada che si sta percorrendo non conduce alla testimonianza che chiama a una appartenenza cordiale. Si è accennato agli addetti ai lavori: tra loro, certamente i preti hanno un grosso carico di responsabilità. Sono ancora pochi quelli che hanno sviluppato una attitudine all’analisi, che richiede un minimo di secolarità, una cultura dell’altro senza di cui non si compie una buona revisione del proprio stare tra il vangelo e la predicazione. C’è una autoreferenzialità che neppure l’educazione più recente dei seminari ha saputo rimettere nell’ordine di una pastorale condivisa. E permane dunque una cultura separata: se gli altri non ci sono, non partecipano, è per colpa loro, non ci riguarda. È la sindrome di coloro che si sentono “arrivati” alla fede, scissa, come è evidente, dalla missione che fa di un discepolo un apostolo. Le mille sfide della vita non sono accolte con la criticità che valorizza mentre distingue; ma, o attraverso recuperi e scopiazzamenti che abbassano lo spessore di un annuncio che di sua natura rimane diverso rispetto agli stili di vita del mondo; o con un rigetto motivato solo dal rifiuto di parlare il vangelo all’uomo d’oggi.

 

Dunque occorre guardarsi

Qualcuno vede, qualcuno no, questo malessere della Chiesa. Alcuni lo vedono piegandolo alla propria sensibilità, talvolta alla propria paura. Che lo si descriva bene o no, quel malessere, si sono tentate e si tentano risposte. Per la loro accettabilità che sia di sostanza, occorre avvisarsi subito di esasperate parcellizzazioni, o di una semplificazione remissiva: ci si immetterebbe in soluzioni che complicano solo la problematicità. Nella ricerca di una presenza cristiana rinnovata alla luce dei testi conciliari fondativi, e che sia perciò vera rispetto alla contemporaneità, quale visione di Chiesa comanda certe proposte? A mo’ d’esempio, possiamo delineare una griglia di lettura che appunto avverta di possibili vicoli ciechi – ciechi per la meta, anche se per un po’ sono strada: cercando di adocchiare quale mentalità le guidi.

  1. L’atteggiamento dell’abdicazione. È proprio di chi legge la situazione di minoranza in cui è entrata la Chiesa, rapportandola a una misura di quantità ideologica. Dunque pochi capiscono il messaggio evangelico, perché pochi lo possono capire. È una sorta di acquiescenza al destino del piccolo resto, non inteso come seme ma come termine. Fa nascere sentimenti di ripiegamento soddisfatto, di chiusura nella comunità calda dove tutti si conoscono nella fede che si riconoscono. Con frangiature di indisponibilità a lasciarsi mandare: cogliendone quasi l’inutilità sull’agire, e fortemente accentuando il grado di spiritualità (inteso come rimando all’unica opera dello Spirito) come rimedio della salvezza di chi non è raggiunto dall’annuncio. Indulge facilmente, come si può ben capire, alla pigrizia che si ammanterà naturalmente di altri nomi: si dirà che è un ritorno all’essenzialità, un non lasciarsi occupare troppo dalle prassi pastorali. Finalmente facciamo meno, e meno siamo messi alle strette dai fallimenti.  
  2. Chiesa dentro la Chiesa. È proprio di chi, al contrario, intende la presenza cristiana come una occupazione del territorio. Si è in quanto si conta per ciò che si fa. Un riconoscimento sociale che si imbastisce su un modello che coglie la fede come una spada che separa, all’interno stesso del fatto cristiano. Inventa una lingua, crea una corporazione, delimita il territorio dentro cui far abitare quanti aderiscono. Gli altri esistono solo in quanto servono al proprio progetto di società cristiana: le nostre scuole, le nostre imprese, i nostri uomini. Hanno la mentalità di chi vive creandosi sempre un’opposizione, che diventa – anche a prescindere da una coscienza volutamente incorreggibile – una sorta di giudizio di Dio tra chi è meglio cristiano (naturalmente loro) e chi meno. Il più delle volte si riconoscono in un capo carismatico: che, tuttavia, più è lontano più è decodificato a seconda del proprio territorio; dove è vicino, immette in un plagio talvolta pericoloso per la libertà di coscienza dei singoli.  
  3. La preminenza culturale. Si è in minoranza, ma una minoranza motivata potentemente dalla storia, e dai valori di cui si è impregnata la civiltà italiana, valori difesi non solo nel loro nocciolo ma anche nella problematicità storica. È quasi insormontabile, per chi appartiene a questa proposta, non essere riconosciuti, ad esempio nelle carte costituzionali europee. Si procede, inavvertitamente rispetto alla distanza che si crea con la base, su traiettorie soprattutto etiche fondate su scuole teologiche che si assumono come un tempo si guardava alla filosofia: non un sapere accanto, ma una garzona della teologia. L’atteggiamento che ne discende è una richiesta di riconoscimento alla pari, potere tra poteri. È una Chiesa che non riesce a pensarsi senza concordati, da cui prendono corpo le convenzioni di servizio. La rilevanza sta anche nell’essere riconosciuti come rilevanti, a prescindere. A discendere, ma non necessariamente, si situano quanti hanno nostalgia del partito cattolico, di tutti i cattolici: una massa contrapposta, possibilmente maggioritaria. Si è irriso, e si irride, l’immagine del cristiano lievito delle diverse opzioni ideali; quando ancora non se ne ha paura, rispondendo con le viscere a processi storici ormai arrivati a conclusione.

 Una Chiesa finalmente definitasi come minoranza può essere una chance al rinnovamento delle prassi cristiane di predicazione del Vangelo? È un’occasione per rigenerare le nostre capacità missionarie, se si sa benedire questo tempo.