A ciascun fedele la sua devozione? Ormai ne siamo convinti tutti: il ritorno della religiosità popolare non va disprezzato, semmai evangelizzato. Ma, come premessa delle premesse, sta il tener conto di due elementi, il fatto generazionale e la geostoria delle regioni: così si eliminano parecchi fraintendimenti, e molte distorsioni. E, soprattutto, non induce alle colpevolizzazioni innescate da chi ha nostalgia di una pietà popolare di facciata, e le auto-colpevolizzazioni di chi non le sente come proprie.

Scrivo di pietà popolare di facciata: e intendo anche qui mettere un ulteriore elemento di distinzione tra ciò che mira, anche se indirettamente e per riflesso, al mistero pasquale, e ciò che ormai sopravvive in un folclore privato di ogni anima pasquale. Quando leggerete queste righe, parecchi tra voi avranno già visto il film sulla passione uscito recentemente dalle fucine blood-pulp dell’America: la correlazione con le centinaia di figuranti che nella settimana di passione rappresentano la via della Croce nelle contrade italiane viene spontanea. Ettolitri di sangue a parte. L’una e l’altra, pur nella loro teatralità esteriore, certamente prendono le emozioni, e rispondono a una elementarità religiosa che non può essere negata.

Ma quando manifestazioni come queste diventano un business, un affare a cui non si vuol rinunciare fino al costo di minacciare i propri pastori, parroci e vescovi, quando tentano di chiamar fuori e da vessazioni finanziarie per gli apparati, e soprattutto da significati indebiti dati ai simboli cristiani? Come si può notare, al di là delle buone intenzioni, il campo non è facilmente dissodabile: qui, più che altrove – per l’intreccio che si costruisce tra il diritto alla libertà personale nel parlare a Dio e il dovere di non abusare dei segni santi affidati all’intelligenza della Chiesa – non si danno ricette uniche. E la pazienza, come frutto della speranza, resta la miglior luce per il discernimento richiesto.

Fare catechesi

La prima cosa da fare è una catechesi che inquadri. Prima di cambiare, o mentre si cambia, occorre dare ragioni che scaldino il cuore e ripuliscano la mente. Occorrono anni per impostare un lavoro di trasformazione. Imporre non serve a nulla. Anzi, crea quel rinchiudersi che precipita facilmente nel devozionalismo senza fede. Fino, a volte, ad agghiaccianti esempi: quella mamma che nella rivalità politica di fazioni violente perde due figli, e si racconta testualmente così in tv: io sono una donna di chiesa, ma da quando mi è successo questa cosa di cui non avevo diritto, non ci credo più. Non è la tragedia di quella donna che è in giudizio, ma il che cosa del suo dirsi donna di chiesa: appunto, di quale chiesa?

Di un chiarimento c’è senz’altro necessità. E non solo per le distorsioni anche malavitose di cui si è detto sopra. Quando si cade nella magia o nella superstizione, il non prestarsi è il minimo richiesto per una educazione al segno cristiano. Non sempre e non dappertutto se ne coglie l’urgenza: anche i ministri talvolta pronunciano il “che male c’è” dell’opinione maggioritaria corrente in tutti i campi del vissuto umano. Che male c’è se benedico una maglietta di tuo marito, così indossandola ritornerà a te, lasciando l’amante? Che male c’è se mentre si celebra la messa, qualcuno sta davanti all’acquasantiera, voltando le spalle all’altare, per farsi cinquecento segni di croce? Che male c’è a percorrere chilometri in ginocchio verso il santuario di Fatima, per ottenere una grazia? (nulla naturalmente, se poi non vedessi che sulle ginocchia hanno messo dei cuscini avvolti nel cellophan, a togliere proprio quella penitenza che vorrebbero offrire).

C’è certo una gestualità da difendere: grazie a Dio non siamo solo mente, ma anche corpo. Una gestualità che la liturgia rinnovata non ha saputo ancora offrire nel modo degno e ampio (non devono far testo quelle messe trasformate in “saggi” oratoriani – danzati, cantati dai giovani – sulla scia di quelli natalizi fatti nelle scuole per la soddisfazione delle maestre più che dei genitori: semmai son lì a rivelare il fallimento di segni veri!). La pietà popolare risponde a queste ferite anche di corpo. È quando se ne può procurare delle altre – dannose – che occorre intervenire. Ma appunto: partendo da lontano, sapendo fare catechesi sulle richieste sbagliate, non rispondendo in quel modo sbagliato che è il disprezzo sgarbato e scostante. Quelle domande, se non sono di persone svitate, hanno sempre una sofferenza che le accompagna: la carità della comprensione e dell’accompagnamento è evangelizzazione.

Ricostruire

Una cosa certa da cui partire è che il cambiamento ecclesiale – di cui le pratiche di religiosità popolare hanno più sofferto nella loro presa – si è nutrito del cambio epocale. Fuori da un clima di cristianità diffusa, dove le stagioni ritmavano le feste dei santi con la vita quotidiana, dove i campi erano affidati alle mani degli uomini e alle invocazioni litaniche delle rogazioni; dove dunque le feste pagane – che spesso e quasi ovunque stavano all’inizio di sagre e di processioni – esse stesse sono state sconfitte prima ancora che dallo scienza dalla desacralizzazione; nel tempo in cui viviamo, dunque, forse la religiosità popolare va ricostruita. Per quei pochi che potessero scandalizzarsi del ricostruire: dire pietà popolare è dire che appartiene a tutti coloro che si vogliano descrivere entro il cerchio della propria persona, che è certo ragione, ma anche emozione, che è sapere ma anche affidarsi. E per quei molti che potrebbero preoccuparsi per un compito immane: si tratta di ritradurre nell’oggi i segni antichi, partendo dalla convinzione che i bisogni dell’uomo contemporaneo descrivono la stessa valenza di fragilità da affidare a qualcuno vicino, appunto a un qualche testimone che ha attraversato la stessa debolezza. Maria e i Santi, e quel Corpo di Cristo che nella croce e nel pane eucaristico è presenza continuata che riflette il patire e l’offrirsi di ogni uomo.

C’è una ricostruzione che è personale, e tocca le devozioni proprie di ciascuno, secondo la propria storia, i propri traumi, i propri affetti feriti, le proprie attese frustrate. E c’è una pietà popolare che tocca quella sezione paraliturgica, secondo un’espressione cara all’immediato post-Concilio, che ha educato per secoli i cristiani raccolti in comunità. Non si tratta di abolire, ma di traslare a significati che abbiano finalmente nuova familiarità con quel dizionario della vita che ha cambiato la percezione dei lemmi, a loro volta sottoposti al cambiamento dei tempi e dei luoghi in cui avviene la vita.

Possibili evoluzioni

Servirebbe qui una buona esercitazione – ma è giusto che ciascuno lo faccia dentro la propria comunità, nella situazione in cui si trova, proprio per non finire in un ricettario controproducente – su pratiche che talvolta sono state abbandonate senza essere sostituite da altro, o per essere sostituite con altre che non hanno poi sempre retto. L’elenco è da aggiornare secondo se stessi: il rosario, la via crucis, i primi venerdì del mese, le quarantore, il triduo dei morti, la processione del Corpus Domini e quelle del venerdì santo, i pii esercizi, le novene, ecc. (per i pellegrinaggi, che sono un momento evangelizzante se dentro non vi si nasconde una vera e propria gita, potete trovare in un altro articolo del dossier).

Tuttavia alcuni criteri sarebbe bene diventassero un patrimonio comune, perché il rivisitare e il tradurre non siano affidati solo alla sensibilità plausibile ma parziale di un qualche operatore.

Serve innanzitutto badare a ciò che costituisce la pietà popolare: i tempi e i luoghi sono quasi inscindibili dagli atti che si producono. E dunque la notte e il giorno, l’inverno o l’estate, la chiesa parrocchiale o la piccola cappella , le strade del quartiere di città o quelle di paese.

Occorre aver ben presenti i destinatari: che ci si rivolga a tutti o una categoria, che siano giovani o adulti non è naturalmente indifferente. La diversità delle persone chiede una diversità di chiamata che assume i ritmi del lavoro e della dislocazione abitativa. Oltre che gli interessi di vita: anche per la preghiera devota c’è il Getsemani dei tre vicini e degli otto più distanti – per non dimenticare quell’uno che sopravviene per il bacio.

Tutto, tridui e novene, non devono essere pratiche finite in se stesse, ma devono collocarsi nel fare memoria esatta anche se parziale della fede. Dunque non può mancare mai l’ascolto della Parola, per quanto spezzettata: una sensibilità religiosa cresce se la si nutre, rispettando certamente l’età spirituale di ciascuno.

Così i modelli possono mutare nel meglio di cui oggi siamo capaci, pur mantenendo il richiamo atavico, se di questo si sente l’insopprimibilità esteriore.