Mi sono accorto che il vantaggio della sapienza sulla stoltezza è il vantaggio della luce sulle tenebre: Il saggio ha gli occhi in fronte, ma lo stolto cammina nel buio. Ma so anche che un’unica sorte è riservata a tutt’e due. Allora ho pensato: «Anche a me toccherà la sorte dello stolto! Allora perché ho cercato d’esser saggio? Dov’è il vantaggio?». E ho concluso: «Anche questo è vanità» (Qo 2,13-15). Un testo così basta e avanza per farti dire: chiudiamo prima di cominciare. Se tutto è vanità, che vale spendere parole? per confutare?

per ammorbidire? per spiegare quello che sembra detto già esaustivamente? Questo “tutto è vanità” vale come quell’apologo antico “tutti i cretesi sono bugiardi, diceva un cretese”. Un sofisma, anzi due, insopportabili! Se la menzogna non si sa se appartiene a chi dice o a chi è detto, e se il tutto è un soffio, un inutile, dunque un niente – anche il poco che si potrebbe scrivere qui non vale la fatica. Ma c’è un ma: che non si deve considerare come una di quelle scappatoie furbastre di un autore in cerca di idee; è un ma che esce dal testo stesso. Se tutto è vanità, perché ritmare il testo di un ricorrente invito alla gioia? E perché la tradizione ebraica ha collocato questo testo nella liturgia della festa più gioiosa del loro anno, quella delle Capanne? Un testo che sembra tristoide, segnando ogni cosa con il marchio della ineluttabilità della scomparsa, entra forse in contraddizione con se stesso, o contiene un segreto che al disincanto della nostra epoca potrebbe aprire qualche spiraglio di luce? Potrebbe mettere, appunto, degli occhi in fronte?

 

 

L’esperienza sulla vita

Siamo stati avvertiti già nei testi precedenti. Chi scrive o detta questo libro è uno che ha vissuto. E ha vissuto agiatamente. Ha visto, ha posseduto, ha goduto, ha fatto del bene, ha attraversato lunghi anni sulla terra accorgendosi che Dio ha fatto bella ogni cosa. Se si volta indietro è perché s’accorge che la vita è andata in maniera diversa da come gli sembrava mentre ne viveva i frammenti. Raccoglie in sintesi: e non può negare che la vita sia buona; ma pure s’accorge che la direzione che l’uomo le imprime non è la direzione che effettivamente essa prende. Ci sono lacci e lacciuoli che la tirano in sensi opposti: il bene e il male, la santità e il peccato. E dunque s’accorge che non serve ostinarsi dentro quanto gli è stato trasmesso: è quanto lui ha vissuto che diventa pista di vita. Che tu faccia bene o male non cambia il corso delle cose: se devi essere messo nella prova, sta’ certo che ti ci troverai, non potrai scappare. E se cerchi un senso a questa vita, sappi – lo dice a se stesso al termine dei suoi giorni, e ne partecipa a noi – che non devi ostinarti in una ricerca ansiosa prendendo a interlocutore Dio. Dio non parla con te – e sarebbe vanità la pretesa contraria. Puoi lamentarti di Lui, ma non pretendere di trattare con Lui (conosceva Abramo e la sua pietas che lo faceva così sfrontato con YAWY?). Tutto quello che hai in gioia ti viene da lui, è un suo dono: non s’appoggia su nessun tuo merito. E, tanto meno, sappilo, non credere di procurarti tu la gioia attraverso una vita agiata e piena di piaceri.

Dunque – dice il saggio di questi intensi capitoletti – non confondere quello che hai imparato nelle scuole del Libro con quello che di fatto ti capita: resta aperto a tutto, a sapere che la gioia non coincide con i piaceri della vita, ma che la puoi trovare in essi solamente se ti è concesso. Sei un uomo: non mangi e non bevi, non piangi e non ridi, e non fai l’amore, come gli animali. E se combatti, non lo fai con la furia omicida della pantera. Sei altro. Impara. Tu sei un dono; e tuttavia non ti appartieni. Ma dove è il vantaggio, tu dici, se vivo del tutto diversamente dallo stolto, e poi entro nel tunnel allo stesso modo suo?

 

 

Un trattato laico

L’esperienza contraddice tutte le soluzioni proposte. Perché lo stile del libro non è quello assertorio: fortemente dialettico, propone l’una cosa e il suo opposto. C’è chi dice una cosa, e chi ne dice un’altra? Io te le dico tutte e due. Non prende posizione, perché vede che non c’è, visibile, una soluzione. Descrive: come vuole l’esplorare saggio dell’esperienza. E così, credente come si rivela in Dio, ha di Lui il più grande rispetto: guarda all’una cosa e all’altra, non ne capisce la trama, ma ribadisce, riga dopo riga, che Dio non deve rendere conto a nessuno. Anche se scontenta tutti. In grande anteprima rispetto a pensatori moderni che suggeriscono di vivere l’esperienza della fede come se Dio non ci fosse, egli si rifiuta di cacciarsi nel mistero. Prende sul serio la vita; nei suoi lati buoni si compiace e in quelli cattivi non si ribella: la ricompensa non è di questo mondo. Qui è dato di vivere una complessa avventura, che richiede di non essere negata in nessuno dei suoi frammenti. Ma neppure di essere violentata. In questo è laico: staccato dalla funzione eccessivamente consolatoria della religione; e tuttavia ponendosi in disparte nella successione dei tempi, non rendendosene padrone. È appunto l’esperienza che può rivelare il mistero che si svela a poco a poco: il mistero della vita, e dell’uomo e di Dio che chiama. Né scettico, quando fa ritornello sulla vacuità delle cose; né epicureo, quando ripone la gioia negli attimi concessi. Il dolore non gli fa perdere la fede in un Dio buono: è la vita. E però non si rassegna al dolore. Lo si combatte fin dove si può, nelle gioie che il succedersi dei tempi permettono.

Laico è uno che sa mettersi in disparte rispetto alla volontà di Dio che si manifesta. Ma è pure chi non si tira indietro quando la volontà di Dio lo chiama a collaborare. E se la volontà di Dio lo chiama a toccare la natura per una migliore qualità della vita, egli lo fa. Non s’arrocca su quello che ha già visto: ma si tiene pronto a quello che avviene. È laico se tocca, ma si astiene dal manipolare aggressivo, per piegare a sé. Si tiene spalancato sulle meraviglie che il mistero della vita ancora non ha dispiegato. E dunque né è fondamentalista rispetto alla natura né si schiavizza di fronte allo scientismo.

 

 

Ben oltre l’accidia

Per questo Qoèlet ha molto da dire all’oggi: e perciò il suo ritornello sulla vanità spinge a starci su invece di chiudere subito il discorso. Che cosa è vano e che cosa sorpassa la vanità in un oltre che corrobora la vita? “Non c’è nulla di nuovo sotto il sole”. Di due secoli posteriore ad Eraclito, dice come lui che ogni cosa si trasforma nel suo contrario, la luce nella notte, la vita nella morte; come lui descrive la molteplicità dell’essere: non ci si bagna due volte nello stesso fiume. Diversamente da lui non trova nello scorrere delle cose una neutralità del disegno: Dio c’è, e sta con te, anche se non ne senti l’influsso. Se è vero che lo stesso uomo non si bagna due volte nello stesso fiume – l’acqua cambia ed anche cambia l’uomo che vi entra – sulla riva di questo fiume ci stanno uomini che imparano l’immersione da chi li ha preceduti. Certo tutto passa. Per questo nell’insieme della Scrittura può essere considerato il libro che definisce il credente secondo il modulo della transizione: quando le certezze tradizionali sono scosse, e quando ancora non si danno verità a sostituirle, occorre accettare di stare sospesi. Anche questo è accettazione del mistero che Dio ha messo nella vita. E restare sospesi talvolta vuol dire accettare la trama di incoerenza che si intesse: la stessa incoerenza che emana nella lettura di questa operetta preziosa. Così come il canto erotico di Cantici, così il mormorio queto dell’inaninità rispetto alle attese: è la ricchezza biblica, che è poi l’unità delle schegge che compongono la sinfonia del sapere. Quando suona l’orchestra, se non quando, pezzo per pezzo, si sono accordate le diversità contrapposte degli strumenti?

L’inanità di certi periodi della vita non conduce all’accidia. È l’operoso fermarsi. Il silenzio-la riflessione-la comparazione preparano al discernimento. In questo Qoèlet è maestro per noi: ci dice di guardare, guardare sempre e tutto. La magnolia che nel tuo giardino annuncia la primavera, e lo stormo degli uccelli che nel cielo sopra di te lasciano l’estate. E naturalmente, in un contrappasso senza contrapposizione, ci chiede di non togliere lo sguardo da ciò che si deteriora, e dalla morte.

 

 

Perché vuoi rovinarti?

Se si prendessero le sue parole e le si staccasse da ciò che le precede o le segue, Qoèlet sarebbe tradito. “Non essere troppo scrupoloso né saggio oltre misura. Perché vuoi rovinarti?”. Al contrario di Giobbe che soffre, Qoèlet è un uomo in buona salute, e che non ha provato rovesci nella vita. L’uno fa partire le sue interrogazioni dal dolore, l’altro dalla felicità, per quanto centellinata: ambedue sulla stessa strada a chiedersi dove li sta portando la vita. Ma entrambi si muovono in quel loro deciso interrogarsi. E si trovano, nel bivio che segna le storie degli uomini, l’uno a sfidare Dio, l’altro a parlare di Lui. Il primo ad avere la consolazione di un confronto, l’altro a non affidare più alla religione il compito di dare la risposta alle domande che si pone. È il non facile momento (e sarà un caso che tocchi più a chi sta bene rispetto a chi fatica?) che tocca a quelli ai quali è venuta meno la relazione con Dio. Lui sa di Dio. Qoèlet sa, nel suo tentativo di districarsi, ciò che conta: “temi Dio”. Un ritornello almeno pari a quello sulla vanità di tutto. Qoèlet prega? No: no almeno in maniera diretta. Si tiene distante da Colui che pure teme. Forse non osa. Oppure lascia a Lui tutto, proprio per non pregare vanità. È questo il silenzio che rende così fragile, così vacuo il suo benessere? “Come ignori per quale via lo spirito entra nelle ossa dentro il grembo di una donna incinta, così ignori l’opera di Dio che fa tutto”. Non rovinarti: se temi Dio, non ti preoccuperai di essere sempre a posto o di sapere la soluzione di ogni cosa. Poiché in tutto s’impara il limite, e l’ampiezza da vivere nel limite. Per non perdere nulla di ciò che è dato. Lui sa di Dio. Ma non sa parlargli. Succede a molti di noi.