Il proverbio è non è virale come dovrebbe, in tempi che viviamo: se per virale intendiamo il diffondersi particolarmente veloce e capillare, come invece avviene per ben altre cose molto meno sapienziali. Come, ad esempio, è rilevato dai dati drammatici che evidenziano il diffondersi di una dialettica della violenza che viaggia soprattutto online. Eppure, se c’è una certezza in questa vigilia incerta di elezioni, dovrebbe finalmente disturbare, e per tempo, l’antico proverbio che risale sino a una rivisitazione di un verso dantesco: chi è causa del suo mal, pianga se stesso. C’è stata la Brexit, per dire. E l’elezione del nuovo capo della Casa Bianca. Lì molti giovani non sono andati a votare. Gli stessi che, il giorno dopo, si sono messi in piazza a contestare l’una cosa e l’altro. Il doveroso “dove eravate” nel momento della decisione non è l’eco del “ve l’avevamo detto”, o almeno non solo. Persino il vangelo potrebbe avvertire: vi suonavamo il flauto e non avete ballato, vi chiamavano a decidere e vi siete sottratti. Colpa di Internet, che dà a tutti la possibilità di esserci senza esserci? Qualcuno, tanti, credono non sia più possibile fare a meno di internet; ma proprio per questo “bisogna capire che non ci può più essere distinzione tra un comportamento online e offline”, tra lo stare alla finestra e lo scendere in piazza. Le conseguenze sono sempre reali: instabilità, avventurose voglie del proviamo anche questa, incapacità di un realismo che tenga conto di una democrazia che per quanto ammalata, non può essere abbandonata nel suo letto di insufficienze. A fronte di richieste impossibili, e di promesse inattuabili occorre sapersi determinare verso chi riesce a stare dentro schemi possibili, per quanto insoddisfacenti. Tutti vorremmo la perfezione, ma ce la vogliamo riconoscere l’imperfezione come connaturale all’essere umani? E dunque la gradualità, e dunque la progressione: che non è il progresso così come lo intendiamo da troppi decenni – sempre avanti, sempre di più – ma un processo, che è avanzamento e soste. Che è giudizio. Scegliere la solidarietà, e chi meglio la propone, è l’agire responsabile di un cristiano che sia un cittadino affidabile. Perché la solidarietà è il comandamento primo e riassuntivo di ogni altro: da quando il Figlio di Dio si è fatto solidale, nell’Incarnazione, con l’umanità, fino a dare se stesso. Una solidarietà che prepara l’aprire le porte a chi viene da fuori, ma nell’allenamento all’accoglienza di chi sta vicino. E il buon vicinato è misura di scelte della politica: correggere gli egocentrici sta nella solidarietà; e opporsi ai fomentatori delle paure è carità. Pronti a crearsi avversari e nemici, incuranti di generare facili consensi, e impassibili – della impassibilità generativa insegnata dal Rosmini – di fronte a critiche ingenerose. Così, questo primo scorcio di quaresima diventa il momento giusto per interrogarsi su come, da cristiani, vogliamo vivere da cittadini. Piangere dopo è da sepolcri imbiancati. Avvertirsi – e avvertire – prima, è da persone adulte. Tornare a sorridere può essere difficilissimo. Superare fatica e dolore, vincere diffidenze, togliere il superfluo che ci spegne, cambiare: niente di tutto questo è semplice o immediato. Ma doveroso. E, alla fine, appagante già in questo mondo, e non solo in paradiso.