Non sono per l’orso morto o solo accantonato. Ma su qualcosa bisogna pur dichiararsi: ed è così ovvio, che mi viene da ridere di me stesso mentre scrivo. Anche se c’è poco da ridere. Stiamo (=stanno) sistemando la Chiesa. Non dico dove né come. E qui non mi dichiaro, perché sento che le ferite di alcuni richiedono tutto il tempo di cicatrizzarsi. [Però: convocato in udienza il 13 settembre 1927, lo si vide uscire dall’ufficio del Papa senza zucchetto né anello né croce pettorale: era entrato cardinale e ne era uscito prete (infatti non aveva mai ricevuto la consacrazione episcopale, non necessaria per i Principi della Chiesa finché questa disciplina fu riformata nel 1962, da quel santo di papa Giovanni che purtroppo ha così dato il là a una pletora di vescovi senza chiesa); e pensare che fu proprio lui il protodiacono che incoronò lo stesso Pio XI nel 1922. Il padre Louis Billot si ritirò a vita privata nel noviziato di Galloro, dove morì di polmonite. Naturalmente non c’è da aspettarsi che qualcosa del genere possa avvenire per qualche odierno cardinale. Anche se …]. Di solito mi sforzo di seguire la regola di non oltraggiare il silenzio su ogni cosa. Ma su qualcosa non riesco più a tacere. Se ne va della credibilità dell’immagine che la Chiesa dà di se stessa. Secondo me. O esagero? come direbbero i soliti laudatori del tempo presente per il “mondo che ormai è cambiato, te ne devi rendere conto” (e dicendomelo non si riferiscono solo a cellulari o smartphone con relativi scambi di piatti in tempo reale seppure in modo virtuale). Che se la loro propensione a giustificare avesse la saggezza del papa che dice “non essere questa l’epoca dei cambiamenti, ma il cambio di un’epoca” io saprei ancor più convincermi che il mio disagio è giustificatissimo. Un cambio di epoca? Dunque un cambio di sguardo e di comportamenti da certificare. In breve: non mi sono mai augurato di essere, in quest’ultimo decennio, nei panni di parroci che debbono celebrare i funerali di chi ha un compagno, una compagna, al posto di un marito o di una moglie, nei banchi accanto alla bara. E non perché non possa darsi in pura coscienza. Ma perché occorre comporre nella verità di quel che si vive: poiché chi sta lì sa che nella “teoria” della chiesa questo non si dà. Ora. E dunque come può un prete dire senza dire, annunciando la Parola del Signore? che potrebbe sì collimare con il vissuto del defunto, ma non con quello che lì si rappresenta secondo i dettami ecclesiastici? Una Chiesa che si attorciglia su se stessa per permettere o no di accostarsi all’Eucarestia a chi si è dato a un secondo matrimonio; e poi celebra con monsignori romani funerali di chi si è fatto almeno tre “compagne” e a volte senza neppure il sigillo di un riconoscimento civile? Botteghe teologiche di morale da rifare? Certamente, e presto. Per non condannare all’ipocrisia tanti poveri preti di campagna e no, richiesti di celebrazioni che stridono, queste sì, con la dignità umana: e di chi viene funerato e di chi presiede quel funerale. Forse l’ho già scritto, ma qui può esemplificare. A me è successo di celebrare per un suicida ottantenne: l’accenno alla misericordia del Signore che accoglie l’imperscrutabile umano, e la rabbia di nipoti “che non si doveva dire”. A parte che la cosa era risaputa da tutti quelli che stavano lì, ma la mia dignità nel voler dire parole vere? e la dignità di quel defunto riconosciuto in una fragilità che rendeva ancor più pregevole una vita stimabile? Che Chiesa è quella che non sapesse finalmente dire una parola nuova sul nuovo modo di concepire l’esistenza di persone che pur vogliono vivere di fede cristiana? ed esserne comunque riconosciuti pienamente?