All’inizio di un nuovo anno, tra i tanti auguri che ci si è fatti, immancabile “che finisca questa pandemia”! E si è pregato, e si prega, perché la faccia finire Lui; e non manca anche il tentativo di dare scadenze a Dio: che è poi il peggior modo di riconoscerlo per quel che Lui è. Una lettura di Geremia 29 mi ha aiutato a dare consistenza più fondativa a quanto sto dicendo, e scrivendo: nella grande disgrazia occorre vederne la grazia. Lì c’è la lettera a chi è in esilio:  A tutti gli esuli che ho fatto deportare da Gerusa­lemme a Babilonia: costruite case e abitatele, piantate orti e mangiatene i frutti;prendete moglie e mettete al mondo figli e figlie, scegliete mogli per i figli e maritate le figlie, e costoro abbiano figlie e figli. Lì moltiplicatevi e non diminuite. Cercate il benessere del paese in cui vi ho fatto deportare, e pregate per esso il Signore, perché dal benessere suo dipende il vostro. Un castigo l’esilio? Anche, ma il tempo prezioso di porsi la domanda fondamentale: perché? che senso hanno questi giorni lontani dal tempio, e dalla terra che pure ci è stata data? Non è la vita così come la si è ordinata il tutto; e la sua normalità può diventare una fuga dalla pienezza di sé.  La grazia della pandemia che allontana dalla “normalità” – così come di quell’esilio biblico – sta nell’abitarla comunque, nel compiere tutto quello che genera vita, una successione non inquietante di occupazioni e di abbracci. Geremia e un quasi incipit di un giallo (di cui non vi dirò il titolo): Una volta mio fratello mi aveva spiegato la teoria del limite. Disse che ogni sbirro della Omicidi aveva un limite ma che il limite restava sconosciuto finché non veniva raggiunto. Stava parlando dei cadaveri. Secondo Sean, uno sbirro poteva guar­darne soltanto fino a un certo numero. E il numero cambia­va per ogni persona. C’erano quelli che tagliavano presto il traguardo. Alcuni superavano anche i venti senza neppure andare vicino al limite. Ma c’era sempre un numero fisso di tolleranza per ogni sbirro, e quando arrivava, era finita. Ti fa­cevi trasferire agli archivi, consegnavi il distintivo, facevi co­munque qualcosa perché non sopportavi più l’idea di dover vedere un altro cadavere. E se ci provavi, se superavi il tuo limite, beh, allora eri nei guai: potevi ritrovarti a succhiare la canna di una pistola. Questo mi aveva detto Sean. (I romanzi avvertono meglio di tanti trattati). Un credente non si dà la morte, certo, neppure in un tempo infausto si dà alla canna del gas. Pur sapendo i propri limiti. Anzi, è allora che vivendo s’accorge, nei suoi esili più o meno quotidiani, di avere necessità di Altro. E si mette a cercarlo, perché la speranza in lui è più forte di ogni intoppo. Sa di non poter mai scaricare la speranza, anche quando il cielo è fosco. Sa che allora più che mai vive, nonostante. Preoccupati, non ossessionati: il mantra di cui, dall’inizio di tutto questo, abbiamo profumato Fontanella.