Perché perdere tempo a lamentarci della notte, mentre ci aspetta la luce del giorno? ce lo ricorda il Papa. Ma  appunto: L. de Góngora y Argote, il poeta spagnolo del seicento, citato nel Diario ultimo del card Ravasi, ammonisce sul retto uso del tempo: “Non risparmieranno neppure te le ore, / le ore che vanno limando i giorni / i giorni che vanno rodendo gli anni”. Ecco perché sognare ad occhi aperti non fa bene. Immaginavo in questi giorni quanti avrebbero sognato di essere il medico di quel calciatore a cui ora vogliono intestare lo stadio (boh?!). Al massimo della fama riflessa e degli emolumenti – bella parola per non nominare il tanto denaro che ora arriccia la vita ai tanti eredi sparsi nel mondo – quel medico ci è riuscito, e per quel sogno viene osannato e poi travolto in un incubo, per le accuse di omicidio, colposo o peggio, su cui è indagato. Ma gli esempi ci sono nella vita di ciascuno: arrivare lì, sognare di arrivare lì; e poi? Sogniamo  da sempre di essere onnipotenti, o almeno di diventarlo al più presto. E poi arriva una pandemia: chi ci pensava prima che arrivasse? Pensiamo a terremoti, ad alluvioni, persino alla caduta di un qualche pezzo di stelle: ma la pandemia? cosa che abbiamo sempre pensato fosse roba d’altri tempi, o di altri, dei cinesi ad esempio! Al più, per noi, una epidemia: qualcosa di circoscritto, da poter affrontare ragionevolmente. E poi questo virus, questo fantasma che ha la potenza indiscussa di farci sentire in balia. Di strapparci la faccia dalle sabbie in cui l’abbiamo immersa, per farci accorgere della nostra fragilità innata. Una fragilità che ci riesce difficile da accettare. Tanto che  prima o poi troviamo sempre un capro espiatorio: all’inizio fu il fato, e aveva il nome, appunto, di cinesi. Adesso è lo Stato, sono i medici, o i vicini che non si curano di noi e pretendono un natale sulle nevi. Ne I fratelli Karamazov, Ivan è l’intellettuale feroce con se stesso, che racconta ad Alioscia, il fratello buono, del Grande Inquisitore: uno che minaccia Cristo ritornato ad affermare la libertà d’ogni singolo individuo. Gli minaccia il rogo perché quel dono rende infelice l’umanità a causa del peso insopportabile dell’essere liberi nel distinguere tra il bene e il male, il giusto e lo sbagliato. Quello proposto da Dostoevskij è un cristianesimo estremo, quello dimenticato nei grovigli di pratiche che hanno condotto alla deriva il Vangelo. Che detta così sembra eccessivo? Eppure, a leggere il testo di Genesi – e le parole di Adamo “La donna che tu mi hai messo accanto” – il capro espiatorio diventa Dio stesso: sua la colpa. E non per la proibizione, ma per l’atto creativo della donna. Dice un autore che lì si rivela la grande fragilità umana: l’incapacità di assumersi la responsabilità. E “la morte in solitudine di tutti, a cui da lontano abbiamo assistito in questi difficilissimi mesi, non è tanto il prodotto della giustizia e dell’ingiustizia divina, quanto della incapacità di pensare le relazioni, di prevedere e trovare approcci concreti, immaginabili e possibili ai momenti critici e alla sofferenza: non è questione di Dio ma di noi uomini”. Resi capaci di responsabilità, degli uni per gli altri. Un medico, di questa pandemia ha detto una cosa importante: non gli piace il termine immunità di gregge, come se fosse lasciato a un atteggiamento passivo il renderci immuni dal virus pandemico, dice di preferire il termine immunità di comunità, dove appunto è insito il concetto di responsabilità. È l’intelligenza dell’obbedienza, che ho fatto mio mantra in questi mesi: che nulla toglie agli altri mentre conserva sé. Se non si fa uso, adesso, della libertà che si coniuga con la responsabilità, restiamo il gregge che siamo diventati, uomini e donne, cristiani e no, in un mondo omologato al basso. Fare tesoro degli errori commessi in questi anni, non illudendosi di riprendere vecchie abitudini: questa è la grazia del covid 19. Per reinventarci come uomini e come cristiani. Appunto: lascia che la vita ti colga nel mentre accade.