Un alunno del tempo felice che fu, mi ricordava in questi giorni alcuni cenni profetici (!) che spartivo negli anni ’70 del secolo scorso. Ai quintini si davano alcune indicazioni sull’essere cristiani e cittadini: capaci di parola e di presenza. Quando era facile prevedere che la funzione progresso – intesa nel malo modo del sole dell’avvenire che allora sembrava risplendere già eterno – avrebbe comportato quello che oggi sembra solo un iter di passaggio: la disoccupazione accentuata. Ma era facile prevedere, se ci si stava solo un poco a pensare il futuro, che la tecnologia avrebbe a poco a poco soppiantato la forza lavoro di uomini e donne. Lavorare per un periodo più breve, a parità di salario, era la prospettiva su cui la politica non ha saputo dare per tempo una vera risposta. E questo perché allora si pensava che progresso coincidesse con il progredire sempre, senza fermarsi: senza sostare a ballare un poco di più la vita. Senza aver coscienza che poteva, quel cammino bramoso necessitato dall’ideologia del consumismo, inevitabilmente comportare un precipitare. Anche afflitta, la generazione di allora, dal senso del dovere, certo; ma impediti di capire che la conoscenza sempre più accentuata di strumentazioni, poteva spalancarsi su un riprendersi il proprio tempo di vita. E in nome di quel tipo di progresso si è formata una generazione di nullafacenti: senza lavoro, ma non senza discoteche, non senza occupazioni che intruppano o in bande criminali giovani e adolescenti in cerca di un proprio star bene; o in quelle bande di smanettatori social che intruppano nella democrazia dei creduloni. Quest’ultima banda fomentatrice della prima: perché crea aspettative che nulla hanno a che fare con lo stare al mondo da cittadini (per rimandare a capitoli ben più ampi dello starci da cristiani evangelizzati). E infatti: basta leggicchiare qualche paginata di Internet per credersi studiati. Mentre si è solamente saccenti: soprattutto là dove la verità è quella che scende da un capo al popolo che beve. Scatenando così le stagioni dello scontento, con quei capi che cavalcano il malcontento. Duecento olivi che vengono momentaneamente trapiantati, per permettere un’escavazione per un gasdotto – e che saranno ripiantati nello stesso luogo – sono sufficienti a mobilitare il governatore di una regione che per altro di olivi ne ha a milioni; e in barba alla possibilità di creare nuovi posti di lavoro: è il no per principio, il no ideologico, il no che non interessa il bene comune. Eppure sarebbe vero progresso: quello che realizza per l’oggi il vissuto possibile. La verità che discende da capipopolo pescati in rete e seguiti nelle votazioni on-line o nelle urne, è questo che ci aspetta? Che ci siano scandali a corredo, autoritarismi da soviet in una nazione che pure si dice democratica, contraddizioni tra ruoli istituzionali e azioni di pura apparenza: la sofferenza di un cittadino normale è sopportare questa impermeabilità alla conoscenza, questa voglia di altro rispetto alla verità del tempo che viviamo. Di quel sapere nelle aule non sorde dell’Esperia, qualche alunno ne ha fatto un discepolato: da cittadini cristiani che in minoranza sanno dire il contrario, e si oppongono. E hanno fatto proprio quel compito che H. Cox ha affidato agli uomini pensanti: “L’uomo per sua natura non soltanto lavora, ma canta danza, prega, racconta storie e celebra”. Così sia per quanti, uomini e donne pensanti, vogliono davvero cambiare il mondo. Ma così sia per quelli che continuano a sentirsi cristiani pur opponendosi al Vangelo predicato in gesti e parole dalla grazia di un papa che è dato oggi. Opponendosi a un progresso evangelico che chiama a ridire il sacro là dove avviene veramente, e dunque nei segni sacramentali, si vorrebbe perpetuato il culto della personalità – dai preti ai vescovi e al papa – che da secoli impedisce loro d’essere gli uomini che sono, con i bisogni e le fragilità da cui non sono esentati. Progredire è così ritornare sempre più profondamente nella essenzialità del Vangelo, che chiama a vivere tra il canto degli uccelli e il profumo dei gigli di campo.