D’estate, si sa, i ritmi si rallentano: per necessità biologica, e per necessità spirituale. Trarsi fuori dall’usato quotidiano, dalle premure che pur fruttuose, finirebbero per soffocare. E dunque c’è chi naviga dalle Alpi al Meridione, passando davanti ai cancelli chiusi di Pompei (per un solo giorno? ma era il loro giorno!); chi raggiunge un ombrellone, i piedi nella sabbia, e le orecchie tappate in difesa dal frastuono dei vicini; e chi invece resta nell’ombra soffusa della propria casa, a godersi la calura che sta fuori. Tutti dotati di libri: quelli consigliati da chi ne sa, perché leggere è la vera vacanza. Credeteci. Non vi consiglierò i miei sette libri del mese di agosto: non voglio influenzare i gusti altrui, tanto che quando qualcuno mi chiede cosa sto leggendo, nicchio, divago, butto lì: ciascuno ha le sue letture, che scopre nei comparti e sui risvolti, nel viaggio settimanale in libreria. Una specie di gelosia del conoscere. Dunque non metto qui titoli: ma questo articolo che potrebbe essere la premessa – perché si legge al meglio se al meglio so la lingua; e se mi lascio affascinare dal segno linguistico che mi accomuna a chi legge altro. Perché la lingua è cultura, cultura è intelligenza, intelligenza è condivisione. L’italiano dimenticato come lingua, è l’italiano dimenticato come individuo e come popolo, come cultura e dunque come intelligenza. Per questo stiamo dove siamo: incapaci di una lingua comune, e dunque di un bene comune, non condividiamo: né tra noi, né tra quelli che bussano alle coste del mare. Eppure la condivisione è il segreto della pace. Spero troviate gustosa questa pagina, e piacevolmente correttiva, nel caso: di grammatica, di sintassi. E di umanità.
Parole sbagliate, verbi usati male. La lingua si disimpara a partire dalle medie e la tendenza verso il basso prosegue fino all’università. Tutti gli errori (anche) degli adulti. Qualche settimana fa il dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pisa ha annunciato di voler avviare, per l’anno prossimo, una serie di corsi di grammatica italiana per i propri studenti. Come mai? Perché la competenza della lingua, indispensabile alle professioni forensi, va calando in modo vertiginoso. È noto, secondo i famosi (o famigerati) rilevamenti Invalsi, che la gran parte degli studenti che escono dalle scuole superiori non sa scrivere, manca dei fondamenti testuali, grammaticali, lessicali, sintattici: dopo le scuole medie, si disimpara l’italiano, e la tendenza verso il basso continua negli anni dell’università e poi in età adulta. Un fenomeno di regressione, il cui primato europeo spetta all’Italia, come ha dimostrato un anno fa anche la ricerca internazionale Piaac (Programme for the International Assessment of Adult Competencies). Dunque, c’è poco da meravigliarsi se l’editoria si attrezza per rimediare all’analfabetismo di ritorno che concerne il leggere e lo scrivere, oltre al far di conto. >>> In questa linea si inserisce l’esigenza di riproporre un vecchio manuale voluto nel 1954 da Adriano Olivetti per le dattilografe, Piccola guida di ortografia (pubblicato ora da Apice libri), a cura di due grandi studiosi come Bruno Migliorini e Gianfranco Folena. E, dopo l’uscita del pamphlet semiserio di Andrea De Benedetti La situazione è grammatica (Einaudi), il nuovo saggio del linguista Vittorio Coletti, Grammatica dell’italiano adulto (Il Mulino). Non un vero e proprio prontuario, ma un libro più articolato che segnala e affronta, analizzandone le ragioni anche storiche, i dubbi e le tante eccezioni che mettono in difficoltà parlanti e scriventi. Non solo l’eterna questione del congiuntivo, che sembra in via di estinzione da quando è nato, ma ben altro. La pronuncia e la grafia: perché scuola e non squola , le doppie z , la d eufonica («ed ecco»), gli accenti e gli apostrofi ( perché e qual è ), la punteggiatura, vera piaga scolastica… I plurali dei nomi composti (lo sapete il plurale di girocollo e di pescespada ?) e dei tanti forestierismi; il mistero dei doppi plurali ( braccia , bracci ) e quello dei plurali dei nomi in -io (principio ); le sottigliezze che fanno litigare su ciliegie o ciliege (una regoletta malefica vuole la i per i sostantivi che al singolare terminano in -cia e -gia ). >>> Poi ancora il genere dei pronomi personali: gli / le la cui distinzione va rispettata almeno nello scritto; la spinosa diatriba sul femminile nelle professioni, per esempio presidente e vigile , che dovrebbero ormai valere per i due generi, e delle forme non ancora accettate da tutti, come sindaca e ministra. Le sfumature di significato che riguardano la posizione di certi aggettivi (non è la stessa cosa dire «un pover’uomo» e «un uomo povero», ma forse neanche «un amico caro» e «un caro amico»); il codesto in disarmo, sostituito da quello ; le ambiguità da evitarsi («il fratello dell’amico di Carlo che è arrivato ieri»); l’invasività del pronome ci ; ilpiuttosto che usato a sproposito in luogo di oppure ; così comeassolutamente, diventato un avverbio passe-partout (positivo o negativo). Il grande capitolo dei verbi, compresi i dubbi sugli ausiliari con il verbo servile («è dovuto partire» e non «ha dovuto partire»). E il lessico, con l’eccesso di usi stranieri: delle 305 parole nuove entrate nell’uso tra il 2000 e il 2013, ben 124 sono puri anglismi, spesso sostituibili da forme italiane perfettamente omologhe ( Jobs Act , spending review …). >>> Ma quel che conta più delle regole e delle eccezioni, si sa, è la sensibilità verso i registri da utilizzare in rapporto alla situazione testuale: in certe condizioni l’uso del congiuntivo è d’obbligo, in altre si può soprassedere. Evviva dunque le grammatiche come quella di Coletti (leggibile da tutti e non prescrittiva), anche se la responsabilità maggiore per rimediare alle lacune linguistiche, che sono poi lacune cognitive e sociali, dovrebbe spettare alla scuola e all’università. Le riforme finora hanno voluto guardare altrove, inglese e internet su tutto, raramente affrontando le carenze del parlato e della scritto nella lingua madre. Ma il paradosso è che la vera emergenza è la lingua italiana: sarebbe utile affiancare la storia della letteratura nei licei con lo studio continuo della lingua; sarebbe indispensabile una formazione ad hoc per gli insegnanti, eccetera. Perché la situazione è davvero grammatica, e c’è poco da ridere. / di Paolo Di Stefano /