È un luogo comune, ormai. Natale non è più natale. Se celebrare è pronunciare parole che svelano il significato di un evento, e produrre gesti che ne dicano il perché, natale non è più natale. Il troppo sfarzo allontana in una distrazione che tradisce ciò che si vuole ricordare. Ridurre il fatto del Figlio di Dio, che si fa uomo e storia, a una festa dei buoni sentimenti, è tradire quell’atto di rivoluzione che fu la nascita di Gesù. È tradirne la memoria. La
verità di una celebrazione consiste nel consegnare una memoria introiettata, vissuta come appartenente alla propria esistenza; e arrivare a celebrarla proprio perché la memoria non si perda, e i fatti che racconta non siano avvenuti invano.
Si vive oggi in una agitazione che accelera il tempo, nell’illusione di conquistarsi il maggior spazio possibile, nel minor tempo possibile: lo si chiama guadagnar-tempo. Non si assumono il tempo e lo spazio guardandoli in faccia: si sorvolano, li si perde mentre si crede di dominarli. Non ci si prepara; non si attinge il senso di ciò che si compie, perché non si è alimentata la memoria del perché si fa, si va, o si sta. Nessun legame, infatti, può avere stabilità senza memoria: nessun legame sulla terra e nei cieli. La responsabilità nei confronti del prossimo, siano i familiari o i forestieri, la si costruisce nella chiarezza della propria storia: e dunque nella memoria che da personale diventa condivisa. E la responsabilità di una memoria consegnata – fatta dalle piccole cose che diventano segni di quelle grandi – ricade su ciascuno, qualunque sia la sua età o la sua vocazione.
Il tempo liturgico dell’avvento è dato per riportare al prima dell’evento, all’attesa che costruisce, alla memoria che conduce verso ciò che si spera. È tempo che diventa esso stesso festa: una vigilia che ha già tutti i sapori e i profumi di ciò che si incontrerà. Ma perché questo avvenga occorre saper memorizzare; facendosi strada, sorpresi ma non trattenuti, in mezzo a ciò che contorna l’anima dell’evento: certo il bue e l’asino, i pastori e gli angeli, ma Maria e Giuseppe chini su quel diverso figlio dell’uomo. È la memoria attorno al fuoco, in quei capaci camini arredati con panche: una stanza del racconto, che non c’è più o è altrove. Per raccontare la galaverna che non c’è più, o è altrove: alberi vestiti a festa, tulle bianco apparentemente ossificato sui rami, e basta il frullo di un uccello a scomporlo in un’acquerugiola incantevole. Per far rivivere una luna che trovi intatta ormai solo in alta montagna, o nelle vaste pianure lontane dall’abitato: luce bianca da corpo arancione a far emergere la notte.
La vigilia di qualcosa e di tanto. La vigilia che è la cucina di casa dove ci si rifugia abbandonando altri spazi più neutri; la vigilia che è l’andare e il venire familiare al cuore prima che agli occhi, e insieme l’attesa di passi nuovi. La vigilia fatta di profumi, di forni che sanno d’arrosti e di torte; ma di sguardi buttati, ma di cose riordinate con l’alacrità tranquilla di chi si prepara a qualcos’altro. A questo serve l’avvento: a vivere il tempo, tutto il tempo, come una grande vigilia.
Vivere questi giorni d’attesa, rifiutandosi di sprecarli in qualcos’altro che non sia e la pazienza di un presepe, e la sobrietà nel possesso; e il risveglio anticipato del mattino per sorprendere il manto tenue e tuttavia prezioso della brina: che, mentre annuncia l’inverno, prepara al natale credibile di Gesù.