L’ultima, e la peggiore, è quella dei pre-verbali. Che sarebbe la nuova definizione dei sordi. Dopo quella già scartata di non-udenti. Ma ci stanno tutte le parole nuove inventate per definire i disabili, o i mestieri poveri. Non vale che gli stessi interesati dicano che non gli piace, che non vogliono essere definiti al negativo, che non c’è nulla di offensivo a dirsi sordi. E per i non-vedenti a dirsi ciechi. Così come è ridicolo chiamare i netturbini (già spazzini) operatori

ecologici, o i bidelli come tecnici scolastici, o quale altra definizione è stata loro appiccicata: rivelando così che scioccamente si considerano mestieri di infima categoria, che si nobiliterebbero cambiandogli nome, con termini che non dicono nulla, che non definiscono più. Eppure ci sono deputati che stanno imponendo, rispetto ai problemi reali di cui non sono capaci di occuparsi, leggine ad hoc per prepararsi una rielezione. Perché, ad esempio, sarebbe offensiva la parola badante? Colui o colei che bada, dice il dizionario, è uno che si occupa, che sorveglia, che accompagna: una sola e inequivocabile parola a dire le molte funzioni di cura a cui affidiamo i nostri familiari entrati nella inabilità. Su altro versante, la stessa operazione, anche se la parola lì non significa più un incombenza o una missione, ma il vuoto che si rappresenta attraverso la presenzialità senza mestiere. Il termine vip, le persone veramente importanti (ma ci sono persone che lo sono da meno solo perché appaiono di meno?) si è ormai tradotto nel vippame costruito in quelle fabbriche del nulla che sono i reality show, avendo come promotori celebrati presentatori televisivi, la cui filosofia è il nulla e che dunque spingono il nulla. Quando le parole non indicano, sviano. E possono corrompere.

Sarebbe troppo facile dire che quando la parola degli uomini non si nutre del Verbo – il figlio di Dio che è venuto a parlare con la sua vita dedicata – inevitabilmente l’esistenza diventa una continua frenata per non cadere in basso. Ma per non fare un’inutile predica al mondo che circonda i cristiani, e talvolta li asfissia, serve chiedersi se le parole che si usano nella Chiesa diventano davvero dei segni, o se non restano suoni che si perdono nell’aria; o luoghi comuni autorizzati, ossia politicamente corretti, sulla scia di quelli sopra citati. Come se la Chiesa potesse essere un’agenzia politicamente corretta, cercando di chiamare brioche il pane per non scostare o allontanare: con un protezionismo delle anime che non libera verso la bellezza di una decisione maturata. C’è ancora, tra i cristiani, chi non vuole che le parole siano intere, ossia diventino giudizi di presenza a tutto il bello e insieme a tutte le distorsioni. Tutte. Sto ancora aspettando che qualcuno mi convinca della inopportunità di parlare della politica su un giornale parrocchiale. Il giornale è un pulpito allargato: perché ci si permette di parlare delle ingiustizie dei neretti – quelli che stanno là e non qua – e non è concesso di discutere delle ingiustizie sui negri di qua (e uso negri per dire tutti quelli che, di pelle tra loro e con noi diversa, hanno comunque il trattamento di indesiderati)? Perché i cristiani non fanno dei pulpiti allargati il loro luogo di risonanza, lo spazio in cui porre interrogativi, e motivazioni, e non condanne? In cui cercarsi e non scartarsi? Nessuno prenda cappello come già successo in passato. Ma se si finge di avere lo stesso dizionario, e se si pensa che il pensiero non si debba tradurre in parole chiare che diventano segni di riconoscimento, allora siamo noi i pre-verbali. È un rischio che stiamo correndo. Che non possiamo alimentare. Lo stesso Sinodo, che si celebra nella chiesa di Bergamo chiede parole piene e forti, non un allisciamento buonista ad attutire lo scandalo che il Vangelo è. Il mondo non va condannato: è il nostro mondo, siamo noi, cristiani insieme a tutti gli altri. Ma il dovere del dialogo, della tolleranza, della cortesia verso tutti non coincide con l’abdicazione a cercare e a riconoscere la verità che si disvela: a poco a poco, da un’epoca all’altra. Nessun campo escluso, perché ogni campo è da seminare di Vangelo. E il primo, che chiede di essere continuamente arato e seminato, è il campo della Chiesa.