Un paradiso in terra, anche per i più poveri, era il natale di un tempo. Del tempo della mia infanzia. Alici in sughetto piccante, e noci di grana accanto a corpose fette di prosciutto crudo per introdursi; risotto giallo allo zafferano, “proprio come si fa a Milano”; bollito pregiato attorniato da mostarda dolciastra e piccante, seguito, ad anni alterni, da arrosto d’anatra o da cappone farcito, e patate crocchianti, e spinaci al burro in salsa di pomodoro,

e fresca insalata coltivata in serra giusto per quel giorno; formaggi vari e frutta, tanta frutta che mai si vedeva: mandarini, fichi d’India, arance, noci, gallette, datteri, uva passita. Una lunga tavolata, mai meno di trenta persone, servita per pause calcolate, in casa dei nonni: tra una portata e l’altra, gioco di carte per i grandi, e sfoggio dei semplici regali ricevuti nella santa notte dal Bambino. Chiacchiere e risate che prendevano il sopravvento, man mano ci si inoltrava nel pomeriggio, sul tramestio di pentole e piatti cambiati: un servizio di pretesa austro-ungarica che sopravviveva quasi intatto e sacralmente solo per quel giorno. Verso sera, la ripresa: raviolini freschi in brodo di gallina vecchia, e il salame nostrano – di ricetta da pianura bergamasca, preparato dalla gran festa del maiale ammazzato sotto il sole acido di novembre – distribuito con la devozione esaltata dall’attesa; e infine, mentre si avviava la tombola, intinto nel mascarpone il panettone di Milano – che adesso non c’è più, e dunque non si fa pubblicità impropria: con il suo profumo unico, di uvette umide e di crosta scottata al punto giusto – bagnato da gradevole vino di mela per donne e bambini, e dal moscato secco per gli uomini.

 

A quella festa si giungeva a poco a poco. Ma era la novena del natale a scandire gli ultimi giorni, soprattutto nella funzione della sera – al gelo della nostra chiesa di paese, a cui arrivavo sotto il mantello del nonno che guidava il mio accecamento beato. E nell’impresa del presepio. Il presepio era di rigore, carta pesta, muschio fresco strappato alle rocce dell’Adda, specchi rotti messi via per quel laghetto, statuine che mostravano tutto il loro tempo: una risalita di segatura nascondeva la perdita di una zampa di pecora. E la vigilia scalava l’avvicinamento nella cucina, che diventava il luogo delle grandi manovre, vietata ai bambini, ma senza la severità intransigente che impedisse qualche incursione: lì, forse, ho imparato che certe proibizioni talvolta sono date per educare al gusto della scoperta. E quel giorno dei miei anni piccoli, era annunciato sempre dalla neve: non ricordo un natale senza neve, ma può darsi che mi sbagli. Dopo, nell’adolescenza che cresceva, vi sono stati molti natali sotto un sole asfittico, a intristire ancor più un’attesa svanita: parabola sperimentata del disfacimento del candore.

 

Un giorno sospeso, era il natale. Di sicuro tutti quei natali erano avvolti da una nebbia da tagliare a fette in quel paese sul fiume. E non dava problema: non solo perché quasi nessuno aveva automobili, ma perché, quel giorno, tutti stavano in casa. Trattorie e bar erano rigorosamente chiusi, e anche le chiese. Niente cinema. La tv ancora non c’era. Anche i più soli erano garbatamente invitati alle tavole già numerose. Fuori, per le strade, c’era un paese svuotato: quel giorno doveva pulsare solo il cuore di ogni focolare. Con una diversità connotata da luci che fuoriuscivano, le imposte lasciate aperte fino a tardi, da case finalmente abitate senza premura. Dimenticate, e senza ipocrisia almeno nel mio ricordo di bambino, contese e invidie. Era un altro giorno. Non un giorno per fingersi buoni. Un giorno che reggeva tutti gli altri fino al prossimo natale. Perché, i profumi di cucina e l’incenso della messa della notte – e il mantello di mio nonno e la nebbia che nasconde agli altri ma racconta a ciascuno la propria intimità – dicevano la stessa cosa: la necessità di una Differenza che finalmente componesse corpo e spirito. Proprio come era avvenuto in Betlemme di Giuda, quel giorno di tanti secoli fa, quel giorno così uguale a quel giorno sospeso che ha segnato da bambino il resto della mia vita. E della vita di tanti.