terzo soliloquio controcorrente 

 Mi permetta di continuare a disturbarla, caro monsignore. Per l’ultima volta, promesso: anche se delle promesse si sa l’inizio, ma non il compimento. Però sono troppe le cose che mi stanno sull’ingluvie (che è il termine nobile di gozzo): e non creda che siano partorite solo dalle mie fisime, nel qual caso lei avrebbe tutte le ragioni per voltarmi le spalle, e mandarmi a quel paese. Non mi piacciono gli uggiosi, quelli che hanno sempre qualcosa da ridire, su tutto

e su tutti: s’immagini se voglio entrare nella categoria. Ma sia finalmente d’accordo con me che non si può lasciar passare questo tempo senza giudicarlo, e dunque senza prendere quelle distanze che ci permettano di salvare il mondo da se stesso: che è poi la condizione perché ci salviamo pure noi. Non che voglia rinserrare tutti in “mondo”. Ma non vorrei che alcuni se ne autoescludessero, solo perché sono credenti ed ecclesiastici. Ah, dice che anch’io mi devo guardare la coda, quando generalizzo verso qualche movimento, o congregazione? In questo, monsignore, le devo dare ragione: pecco di questo peccato. Ma sa perché? Perché annuso che dove ci stanno dei capi e ci stanno dei sudditi a ripetersi lo stesso catechismo – gente che rimbocca con le medesime virgole quanto hanno appreso nella propria scuola di comunità, per cui facilmente si sa quale è il tormentone del momento – quando dunque annuso una sudditanza a guru chiamati padri sulla terra, io sento tradito il Vangelo. Esagero? E quando si vedono i capi della Chiesa collimare con il potere costituito per supposte affinità di vedute sui princìpi che regolano il mondo, mi rinviene la pagina di Pipetta. Che per essere stata scritta da don Milani, prete italiano (ma non per questo da non dover essere conosciuto da chi, venendo da nazioni diverse, abita i palazzi apostolici) non può essere dimenticata solo perché a suo tempo lo si è definito, il prete di Barbiana, un esaltato e un ribelle. E quella pagina traduce il vangelo così: voi discepoli del Signore non potete stare mai dalla parte dei padroni della terra, ma dei poveri, dei centoquaranta che oggi sono annegati nel tentativo di approdare alla nostra ricchezza, per prendere qualche boccone. Esagerato? Ricorda quella frase di Quinto Orazio Flacco, che al liceo ci ha fatto sbattere la testa per capirne il significato esistenziale, più di quello letterale? La Grecia conquistata ha conquistato il rozzo vincitore. Mi permetta di trascriverla in latino: Græcia capta, ferum victorem cepit. Bellissimo per stile, quell’ablativo assoluto del Græcia capta, è stato seducente per i vincitori fino a quando ne sono stati conquistati. Conquistati dai costumi e dalle mollezze, e dunque sradicati da se stessi. anche da una ferocia grossolana – e meno male -, ma insieme da un ordine di vita. La supremazia sul territorio si è rivelata per i conquistatori la più atroce sconfitta della propria civiltà. L’inizio della fatale e inesorabile decadenza. Non sarò così catastrofico da sostenere che la Chiesa, le cui radici cristiane da san Benedetto in poi hanno segnato l’Europa, si arrenderà alla scristianizzazione in atto: le porte degli inferi non prevarranno, lei cita, monsignore? Anch’io. Ma se non si alza forte la voce contro quanti rinnegano la vocazione all’universalità dei diritti, a poco a poco le spiagge saranno mangiate dal mare. Ci accamperemo sugli scogli a prendere il sole del Salvatore? Va bene. O ci rifugeremo nelle catacombe, a lasciar passare la tempesta? Va bene. Ma così assediati, come potremo immergerci, come sale o come lievito, se avremo nel frattempo perso il sapore e la vitalità? Sa: ho sentito un prete, un poco scomodo secondo i suoi parametri – uno di quei preti che non diventeranno vescovi, non perché non ne abbiano le qualità pastorali, ma perché in sospetto di non allineamento – predicare che gli sarebbe piaciuto che a dire “pagare le tasse è bellissimo” non fosse solo un ministro laico ma fossero i vescovi italiani. Tanto per rendere attuale per i cristiani di oggi quel gesto che nella Chiesa primitiva vedeva deporre i propri beni perché tutti se li potessero spartire. E invece, si è stati in silenzio, come molte altre volte. E invece si è subito acclamato a un presunto cambiamento di toni, verso una presunta moderazione (ahi!) che non può esserci se rimane l’ingiustizia di fondo: per la quale ci stanno prebende d’oro accanto a stipendi da fame, prestiti che sanno di strozzinaggio, ostracismi che sono l’anteprima del dagli ai turchi; e ci stanno popoli che si emozionano più per una partita di calcio, che non per chi muore nel tentativo di approdare alle terre della promessa. Ha presente nell’abside della Basilica di san Paolo fuori le mura, a Roma, il grande mosaico che rappresenta il Risorto assiso sul trono? Ai piedi del Cristo, vicino ai suoi piedi, c’è una figurina che sembrerebbe quasi una tartaruga bianca. Quella figura è il Papa del tempo, Onorio terzo: lui si è fatto raffigurare così. Faccia qualcosa, perché i suoi colleghi monsignori, cerimonieri e caudatari, siano arrestati nel tentativo di tappezzare oggi il prezioso servizio papale di vesti che odorano di naftalina. Così che la barca della Chiesa non stia tirata a riva, priva di chi la metta a mare. Priva di pescatori.

 

Un’appendice: ablativo assoluto? no! ma…                

 Riguardo all’editoriale dell’ultimo numero del Santalucia. Dedicato a chi è passato o sta passando attraverso il latino. O attraverso qualsiasi altra cosa che chieda di affidarsi ai folletti, non diffidando troppo del loro potere di reinventare le conoscenze, a scapito anche delle sintassi. Con un piccolo assaggio di vita scolastica. Ma non solo.

Ringrazio per la puntuale e immediata attenzione alla scrittura dell’ultimo editoriale del Santalucia; che compensa della fatica di scrivere cose. Seppure accompagnata, l’attenzione, dal dolente rimprovero, di cui sono altrettanto grato, subito arrivato dai latinisti miei lettori. Preoccupati giustamente che i nostri studenti della maturità e quelli che stanno nei licei non si lasciassero prendere da un simile abbaglio. Il passo: Ricorda (monsignore) quella frase di Quinto Orazio Flacco, che al liceo ci ha fatto sbattere la testa per capirne il significato esistenziale, più di quello letterale? La Grecia conquistata ha conquistato il rozzo vincitore. Mi permetta di trascriverla in latino: Græcia capta, ferum victorem cepit. Bellissimo per stile, quell’ablativo assoluto del Græcia capta, è stato seducente per i vincitori fino a quando ne sono stati conquistati.

Perché, è vero, Græcia capta non è ablativo, ma un normale nominativo, da normale soggetto della frase (comunque facilmente comprensibile dalla traduzione che precede la trascrizione latina …). Come è dunque potuto capitare un errore così pacchiano?, si è chiesto chi benevolmente mi riconosce una diligenza solitamente intelligente. Lo dovreste chiedere ai miei insegnanti di un tempo. I quali mi rincorrevano sulle mie creatività, segnando errore in blu, ma commentando in rosso, intriganti e subdolamente compiacenti: bello, se fosse dell’autore! Da sempre vivo i testi, non solo latini – e non solo i testi – con una disposizione che ha bisogno di ripresentare, di arricchire, di sostanziare con l’intuito sul tempo che si vive. Solo che non avverto dei miei sfizi, letterari e no: talvolta presuntuosi, lo ammetto a capo sparso di cenere.

Capisco ora che sarebbe bastato, nel testo sotto accusa, informare che desideravo trasformarlo in un soggetto dalla icasticità stilistica propria dell’ablativo assoluto. Non per nulla, nella mia riscrittura, ho messo quella virgola che non c’è proprio nell’originale di Orazio. A sottolineare con forza che è proprio l’apparente dominato che finisce per dominarti; e che ti devi guardare, o mia amatissima Chiesa, da coloro che ti apparentano a sé, concedendoti qualcosa ma per toglierti poi l’essenziale. Ecco lo scuotimento più esistenziale che lo stacco su un ablativo assoluto può meglio mettere a fuoco.

Certo, violazione per violazione, avrei potuto reinventare così in latino scolastico: Græcia capta, ferus victor captus est. Ma, concedetemi, non sarebbe stato lo stesso; anche se, lo ammetto, natura non facit saltus neppure nella sintassi. Ed io, non identificandomi alla greve natura, ma usando e abusando dell’intelligenza, non solo nella sintassi i saltus li faccio spesso. Una volta per tutte le altre, colgo l’occasione per chiedere scusa.

Dunque, due conclusioni. La prima per chi s’avvia al latino: cari studenti, in hoc non seguitemi. Almeno finché state al liceo. Le licenze poetiche, perché tale è il peccato incriminato, riservatevele per quando sarete più grandi. A meno che abbiate gli straordinari insegnanti che ho avuto io, che mi correggevano in blu, e mi attizzavano in rosso. La seconda è per chi non è passato attraverso il latino: mi scuso per aver fatto loro perder tempo con questa nota, dato che, non distratti dai problemi sintattici, hanno certamente colto senza complicazioni il senso del terzo (ultimo?) soliloquio con monsignore.

 N.B. Invece il “A presente” dell’ottava riga a risalire dal fondo dello stesso articolo non è una mia creatività, ma un errore del computer: che come sapete, aggiusta lui sempre senza l’intelligenza del contesto, e quindi Ha con acca o A senz’acca per lui sono lo stesso. Lì dunque è con l’acca: “Ha presente”.