il rientro, e le cascate

Passo della Presolana, e uno stuolo di pecore sui pendii, messe lì, in lenta transumanza verso la pianura, a ripulire i terreni erbosi in sostituzione della falce, e delle braccia degli uomini che non ci sono più. Un’immagine, che dietro la poesia di un gregge bianco su un prato verde, non può nascondere il cambiamento del lavoro, e dell’uomo che ne è il protagonista; e dunque la domanda di sempre: era meglio, o è meglio? In questo rientro autunnale

 ritroviamo a cascata uno sfracco di complessità che toccano tutti, e se non proprio nelle tasche – che sembrano essere il miglior forziere dell’italiano che non ama pagare le tasse – almeno nei pensieri.

Politici non all’altezza, da una parte e dall’altra delle barricate, che quando parlano di scuola, pro o contro, non parlano di scuola, ma della pancia della gente che presumono li voterà anche la prossima volta; un federalismo di cui si straparla, con il sospetto degli uni di perdere qualcosa a favore degli altri, e la rivincita ghignante di questi su quelli; un’immigrazione che è percepita da pochi come scommessa sul futuro, e dai molti come rischio del presente: con la conseguenza di una ipersensibilità sociale che esclude invece di annettere; e la violenza non solo dei clan criminali: ma quella che sconvolge la mente, e insanguina sempre più le famiglie; e l’ignoranza dilagante delle regole per una convivenza, con i cani che sono preferiti ai bambini, e con i vecchi che sono espulsi dagli eterni adolescenti che s’impasticcano in proporzione di quanto non si accettano; e gli irrisolti problemi che toccano l’inizio e la fine della vita, cose che colpiscono i cristiani allo stesso modo di chi in Cristo non si riconosce; eccetera.

A cascata, ma senza la purezza dell’acqua che ribolle dai laghetti d’alta quota; ma anche senza quelle canalizzazioni che sembrano imprigionare la bellezza, ma di fatto ne creano una nuova nel servizio ai bisogni dell’uomo. Per costruire la città, per dare forma alla polis. È ciò che va sotto il nome di politica: molto più delle lotte tra destra e sinistra (e centro), è prendersi cura dell’uomo prendendosi cura della città che lui abita. E così aiutandolo a crescere, e a saper scegliere dentro il supermercato che oggi è il mondo, sulle scaffalature che talvolta nascondono la morte sotto etichette di vita.

Per questo Paolo VI diceva che la politica è la forma più alta ed esigente della carità. La più nobile forma dell’amore cristiano, e l’amore cristiano più esigente: non pensate che basti questo per rendere finalmente concreto l’impegno dei cristiani nella città? Che è poi l’impegno per una cura della convivenza dentro mura che hanno porte spalancate sulla diversità del giorno e della notte? e ha forni che sono in grado di dare pane a tutti? e tribunali che sanno distribuire giustizia a ciascuno secondo la propria storia? e direttori d’orchestra che armonizzano culture, con medici che guariscano dall’impotenza narcisista?

Accettando i disagi degli inizi e della continuità, ma – come scrive Arturo Paoli – “preferisco una casa sempre in disordine e sottosopra perché aperta a ogni ora del giorno agli amici di ogni tipo e di tutte le età, alla stupenda biblioteca svizzera che visitai a San Gallo dove fui costretto a lasciare le scarpe alla porta per accarezzare il pavimento con le pantofole preparate per i visitatori. Questa disposizione mi parve esemplare per una biblioteca, ma non vorrei certo che definisse la forma della Chiesa cui appartengo”. E del mondo in cui abito.