Dovreste avere la possibilità, come alcuni di noi, di andare a Subiaco. Ma non in un giorno di sole, e non da soli: camminare all’in su, in quella strettissima valle che scende a strapiombo, e sotto scudisciate di pioggia inzaccherarvi fino ai polpacci, sentire il bisogno di un porto asciutto, e poi finalmente trovarlo. E provare – seduti su antiche panche, in calde caverne fattesi santuario – la sensazione di una evaporazione dei panni accompagnata a

 un’evaporazione della mente, mentre un giovane monaco ti racconta placide storie di quell’anima santa di Benedetto. Lì Benedetto da Norcia ha contemplato il mistero nascosto da sempre in Dio. E l’ha trasformato in azione: anzi nella Regola che per eccellenza regola le azioni dei monaci, e dunque di chiunque si mette davanti al mondo mettendosi davanti a Dio.

Mi salta forte l’emozione di quella giornata passata quest’estate nel viaggio di Comunità. Una comparazione tra quella emozione, e quelle di questi giorni – negli assaggi che mi sono dato dell’evento che ha portato in Città nomi prestigiosi della scienza, in un festival appassionante che ha raggiunto migliaia di persone. Ma raggiunte come, mi sono chiesto? Quale domanda di senso ha suscitato il campo delle stelle o del corpo umano, quale interrogazione dall’avventura che conduce l’uomo oltre le barriere che può toccare con mano? Anche là dov’era prevista una presenza religiosa, mi è sembrato, a causa del versante etico che sembra ormai prevalere sulla fede, che mancasse quella connessione tra ciò che si sa e il loro perché: il perché finale che misura il perché immediato. Insomma che mancasse il far valere, nella scienza, la ragionevolezza e la necessità della “questione circa Dio”. E questo è il primo compito dei cristiani, oggi: disturbare le certezze che si fondano sul ciò che si tocca, per riammettere l’invisibile agli occhi. I colori ci stanno anche se per un cieco non esistono. Occorre porre la differenza tra le cose e i ragionamenti, occorre lasciarsi perseguitare dal mistero per trovare pace. E questo è l’altro compito dei cristiani, predicare la differenza: rispetto a un modo di concepire l’universo, nel suo nascere e nel suo destino, oltre che nel trattarlo mentre si va. Non crediamo, noi, che Dio si è fatto uomo?, e che dunque nulla mai è come prima? È questa novità che occorre ripresentare: e con un vigore che sfondi finalmente l’indifferenza di questo tempo che non combatte Dio, semplicemente lo ignora.

Quando l’indifferenza monta, essa condanna alle aridità di tappe senza traguardo. Di un mondo senza Creatore. E dunque senza Provvidenza. Mi sono riletto un po’ di Guareschi in queste vacanze: per godere di una scrittura di cui non sono capace, ma soprattutto per riassaporare l’essenziale di un mondo piccolo ormai sparito, lasciando il vuoto della grandezza che conteneva. Una teologia intrisa di umanità, e delle verità senza delle quali il cristianesimo non si fa storia: con quel linguaggio così facile da essere difficile da riprodurre mentre si annuncia con allegrezza la serietà della vita. E soprattutto una visione delle cose e delle relazioni che ripudia ogni forma di odio, o di disprezzo: sentimenti che invece oggi accompagnano le arroganze di chi sa – e sa di sapere – ma non s’accorge di sapere solo la propria parte. Amarsi mentre ci si combatte – don Camillo e Peppone – è ormai una qualità umana perduta?  

Non si è fedeli solo se tutto resta identico a ieri. Gli uomini oggi non sono come ieri, il mondo piccolo dentro cui si sono fatte le nostre parrocchie, non c’è più: volersi illudere di rifarsi a quello, è negare la grandezza che lo rendeva vivibile. Non è di un lifting superficiale che necessitano le nostre comunità: ma di un mettersi seriamente nella vigna a lavorare. E a giornata: non per saltuario volontarismo. Perché gli uomini credano che è la mano di Dio che ha seminato il mondo. E che Lui ha mandato il suo Figlio a salvarci dalle foreste del non senso.