Una grande tragedia del secolo scorso, dopo l’olocausto, è stata quella dei desaparecidos: supposto che si possa fare una graduatoria del male. Ma è bene ogni tanto andare nelle soffitte della memoria, e aprire bauli impolverati dalla cattiva coscienza: anche solo per non abituarsi mai ai genocidi. Siano quelli serbi, solo ieri, o quelli che si consumano ancora oggi nella regione dell’antica Persia o nelle nazioni africane. Una tragedia, quella argentina,
e a differenza di quella nazista, che non si è consumata lontano dai riflettori della cronaca: per quindici anni – tanto quanto è durata la dittatura, e ancora dopo – le madri di plaza de Mayo hanno sfilato davanti alle tv di tutto il mondo. Mamme e nonne con un fazzoletto bianco in testa, e una o più foto in mano di figli e nipoti scomparsi. Chiedevano di sapere. E hanno saputo dei macabri voli della morte; la maggior parte degli spariti, lavoratori, studenti, educatori, hanno subito la loro fine in quell’orrido modo: messi su un aereo, del tutto denudati, e buttati al largo dell’oceano, ancora vivi, seppure torturati. Cancellati per sempre, persino alla memoria di una tomba. Hanno saputo dei molti piccoli strappati, appena partoriti, al grembo delle madri imprigionate, e poi messe a morte: adottati da persone del regime, e così dispersi in famiglie complici dell’assassinio dei loro genitori. Dunque doppiamente cancellati. E tutto nel silenzio di chi aveva la funzione di presidiare: giudici, giornalisti e uomini di chiesa. E nell’inettitudine diplomatica degli Stati che si rifugiavano nella doppiezza della non ingerenza negli affari altrui.
Questa vicenda, per come si è svolta, è buon criterio di misura di altri fatti che s’imbevono di ipocrisia. Non si è scritto a sufficienza, e non si agisce a sufficienza sull’ipocrisia. È esibita dall’alto, e si propaga con tutta la brigata degli egoismi verso il basso. Si nutre di paure, di qualunquismo, di insensibilità per tutto che non sia il proprio io. Beve fandonie, si arma di artigli. Ama i capi bugiardi. Perché può perfino starci un colpo di stato; ma non può essere che si prolunghi per anni in una caccia all’uomo, di casa in casa, senza che ci si avveda, dopo aver visto. Può starci che si entri in collusione con le idee altrui: ma che si viva di pancia più che di testa, e che si alimenti di vendetta la vita, no. Ancora oggi, e anche tra i cristiani di alto e umile ruolo, permane quasi per trasmissione genetica quanto si cantava a quel tempo dalle milizie del teschio: senza odio non c’è amor. Che è la giustificazione più netta della cattiva coscienza di chi non vuole saperne delle ragioni altrui. Un panorama intollerabile per i discepoli di Gesù, da subito invitati ad usare il sì e il no nella limpidezza delle relazioni. È come il disgelo di gennaio là dove è nevicato, la trasmutazione del bello nello squallido: il gocciolare irritante dalle tettoie, la neve che si tramuta in sudicia palcia che schizza anche i più attenti. I giorni che ci stanno davanti promettono il festival dell’ipocrisia. Snidarla per contrapporsi è intelligenza. E dovere cristiano.