Rispondere alla pancia della gente. Tutto arriva a destinazione solo se tiene conto delle ragioni della pancia: non quelle della mente o del cuore. La vita fasulla che la tv trasmette come reale; o le stesse intercettazioni telefoniche sulle trivialità private e le frequentazioni improprie di cedri finti-Libano che si schiantano; ma lo stesso linguaggio delle omelie è invitato ad andare alla scuola di ciò che la pancia della gente oggi può recepire: quel quid radical che

 fa dell’individualismo la norma, e del tecnicamente possibile una laicità. Un assoluto presente senza passato: dunque senza incertezze. Lo sentite l’abominio di quell’assolutamente che sostituisce il sì o il no sulla bocca di troppi? Un assoluto che non afferma o nega di più; ma solo esclude i frammenti possibili del prima e del dopo di ogni sì e di ogni no: il dubbio di chi va, il timore trattenuto di chi andando cerca, di chi mette il futuro nel proprio presente.

Ma chi vorrebbe morire di mal di pancia? Una buona cura è l’estate. Un paesaggio, un infinito racchiuso, segnato ma solo in minima parte dalle opere degli uomini. Spazio ampio, apparentemente deserto. C’è una profondità di cielo che specchia la vastità della terra che chiede di essere attraversata. È un’immagine (forse la migliore) di come può essere l’estate: un tempo sospeso che si popola di ciò che appartiene alla storia vissuta. Spazio della memoria di ciò che è stato, di ciò che la vita ha consegnato a ciascuno. Ma è memoria che vive, che ci sopravvive, solo se è consegnata. E si consegna se si comunica, se esce da sé. Uno spazio privilegiato, quello dell’estate: ferma il rumore del produrre, dell’affannarsi, e fa risalire il corposo silenzio di ciò che è stato, in noi e prima di noi.

Non c’è più memoria del mondo contadino da cui tutti veniamo, seppur in distanze e frequentazioni diversificate: dei suoi riti e dei suoi ritrovi, di nonni che si raccontano attorno al focolare, dei bisogni che alimentano speranze, di trebbiatrici sull’aia, di leggende che descrivono verità, e di storie che accendono la fantasia. Prima è sparita la neve nei recenti inverni fatti di canne fumarie sempre accese, poi è sparita la nebbia, con quello smarrirsi impaurito – e quel sospiro di sollievo a una voce che richiama e conduce – che Amarcord descrive così acutamente. Ed è rimasto il freddo di una stagione senza connotazioni. Potrebbe sparire quel poco d’estate rimasto, se per guadagnare la frescura artificiale dei centri commerciali, si lascia fuori ancora una volta il meglio: la nettezza dell’ombra che ti fa costeggiare le strade, e l’incessante orchestra di cicale che fluttua da pianta a pianta ad alleggerire i pensieri.

Se nella ordinarietà della vita i cristiani si muovono e agiscono senza esibirsi, tuttavia ci sono momenti in cui è doveroso testimoniare ciò in cui si crede: ma si può testimoniare ciò che non si vive, o ciò che non si conosce? È il dramma del cristianesimo che oggi sta sfocando perché non lo si sa raccontare. Ma credo che, prima ancora e per noi, sia il dramma dell’uomo contemporaneo che non tiene caldi in sé i propri ricordi, e dunque non sa passare le sue memorie mentre va. Se non si apprende – non nozioni, ma vita; e persone, e le loro tristezze e le risate liberanti – come si può imparare a vivere?

Ma potrebbe soprattutto sprecarsi la preziosità che l’estate è: fuori dal dover fare, il tempo dilatato conduce dentro il piacere di raccontarsi, e così di tramandarsi di generazione in generazione. È il passato che innesca l’oggi: e nel fare comunione sull’oggi si compone un progetto di futuro. Non sembri eccessivo o fuorviante, ma il processo è lo stesso che s’avvera nelle celebrazioni dei cristiani: facendo memoria si compone una presenza reale, del Cristo con noi nella messa, di noi tra noi là fuori, sotto un cielo tutto da abitare.