C’è chi crede e chi no: chi rischia, tanto o poco, e chi no. Fino al giorno prima, i membri di autoreferenti associazioni per la difesa del cittadino hanno fatto esposti alla magistratura contro il super-enalotto, il gioco dei tanti miliardi: denunciano a gracassa che quella combinazione non uscirà mai, ed è dunque un inganno per i giocatori. Vengono clamorosamente smentiti alla prima giocata: la combinazione si fa, i miliardi vengono dati, e loro dovrebbero avere

 argomenti sufficienti per sparire. (Non lo faranno, naturalmente: l’associazione – quella come tante altre – non esiste per il bene dei cittadini – o dei malati, o degli enfants de la terre, o di qualsiasi altra categoria che muove pietà – esiste per dare un’occupazione al figlio e ai suoi amici, esiste per quelli che si sono inventati il mestiere di trovarti uno sponsor, per le telefoniste che ti tempestano di ricatti benefici, per gli sponsor stessi che pubblicizzano il bene di qualcuno volendo ricavare il proprio, e danno lavoro agli amici degli amici dei figli, tappezzieri hostess tipografi e giornalisti: e solo il resto di ciò che hai dato va ai servizi per i quali hai dato. Ma questa è un’altra storia.).

Per il rischio del gioco al bar-sport, un altro gioco più perverso, che ha fatto nascere, nel tempo strano che stiamo vivendo, la nuova emigrazione interna. Manifestazioni della salute, da un medico all’altro non a chiedere una cura, a imporla.

Una storia di casa nostra. È la storia di una bimba di tre anni, affetta da cancro renale, curata con le terapie tradizionali: terapie che assicurano (o comunque promettono) una sconfitta del grande drago in ottanta casi su cento. Sull’onda emotiva del tamtam patologico, che scalda giornali e televisori senza curarsi degli incendi, qualche giorno fa i genitori le fanno fare un viaggio della speranza: viene trasportata in una clinica privata a Roma, per un consulto dai collaboratori del piccolo professore del nord, il cui volto candido è l’immagine più ricorrente nei giorni di questo gennaio. Un viaggio a vuoto, solo per sentirsi dire: “Tornate a Bergamo, la soluzione migliore è continuare con la vecchia cura”. Al padre di quella bimba, che è tornato qui a chiedere di rimettere la figlia nelle cure sperimentate, glielo avrà detto il primario della divisione pediatrica che i malati esigono innanzi tutto serietà e rispetto del loro dramma: anche se si può capire che uno le tenta tutte quando ama, tutto può essere tentato da chi ama?

Tutto il desiderabile è possibile e conveniente? Non accettare la propria finititudine, quanto incide su quest’ansia che fa rischiare alto la propria vita e l’altrui? Ci si sta conducendo a credere che sconfiggere il cancro è sconfiggere la morte. L’inevitabilità dell’invecchiamento è un tabù che si risolve accanendosi nella lotta con il proprio corpo, o spaccando tutti gli specchi? Le domande radicali, quelle di senso – così lontane da quelle del buon senso quando si tratta di vita o di morte – si passano sotto silenzio, quando non sono impedite o represse dagli occulti registi di uno spettacolo che ci muove come pulcinella per il proprio profitto. Ma anch’essi, scettici o distratti che siano, dovranno rispondere: e nella fede cristiana, nel rischio che questo affido pure contiene, le risposte sono paradiso o inferno.

I soliti pochi sanno che cominciano già qui: nell’accettare o nel rifiutare una vocazione, nel riconoscere oppure no salvezza anche in un bimbo che si fa nascere pur privo di cervello: perché altri vivano. Queste sono le scommesse alte, che alcuni pochi tra noi sanno, e sanno vivere. E ogni giorno che Dio comanda le mettono in terra davanti ai nostri occhi. Per darci speranza della loro fede.