Sulle strade della pianura, una volta, quando c’erano i birocci e poche macchine, a segnare il tracciato c’erano dei paracarri di pietra. Alti più del bambino che ero, e grossi quanto un abbraccio. Cadenzati a pochissima distanza uno dall’altro, s’ergevano orgogliosi del loro compito: avvertire che oltre scorrevano le rogge zeppe d’acqua che correva trascinando. Per farci un bagno, lo si faceva con l’avvedutezza
di chi s’avventura sapendo il pericolo: si puntavano i piedi con cautela sul fondo, con una mano a un ramo di robinia libero da spine, e ci si divertiva opponendosi al risucchio dell’acqua. Ma il momento del maggior battito di cuore stava nel superamento di quella invisibile barriera stesa tra pietra e pietra; o di quell’altra: la porticina che dalla casa degli zii floricoltori dava direttamente su una roggia a budello che veniva da non so dove e andava non so dove, anch’essa irruente d’acqua.
Nei cortili di un tempo, per avere la certezza che santa Lucia, quella del 13 dicembre, non era quel che si pensava, si dovevano aspettare gli undici anni: quattro in più di quelli canonici per l’uso della ragione. Se un po’ si sospettava, non si allentava il desiderio di quella presenza che passava non vista nella tua casa: ed era molto più della voglia di regali. Era l’invisibile di cui avevi sete, disposto a prendere a botte chi lo negava con confidenze che la tua innocenza sentiva volgari. Della stessa volgarità con cui oggi si vuol rendere visibile tutto: perfino santa Lucia fatta arrivare a distribuire doni in pieno giorno o calando da un elicottero o scendendo da una carrozza di cavalli bianchi. Svilendo così l’attesa che crea nuova attesa: negando l’invisibile. Angeli o demoni, abitano ancora tra noi? Gli uni a preservarci dai pericoli, gli altri pronti a farci precipitare?
Può ancora essere un mondo vivibile quello che non crede alle cose invisibili? Abbiano esse uno spessore teologico oppure no? Il trovare per forza un colpevole per la frana che da tremila metri cade provocando una valanga e dei morti, oltre che descrivere tutta l’ignoranza sull’irrimediabile della terra, non dice la grettezza di chi pretende di vivere senza un limite? Ci manca la coscienza di non essere padroni di nulla: né del nostro corpo né della nostra anima. Per non essersi dati un limite, quanti di noi precipitano e affogano? Solo per sentirci padroni di una vita di cui non sappiamo mai le coordinate. Solo per la presunzione di poter bastare a noi stessi, o di poter bastare da soli alla vita di qualcuno. Solo per difendere con superbia l’indifendibile bisogno di chiedere scusa e di accettare il perdono, si rinnegano amicizie, si abbandona la mano che ti stringe negli attraversamenti, si sceglie la solitudine piuttosto che rivelarsi nella propria debolezza.
E’ il tarlo che corrode l’uomo da quando è uscito dalle mani del suo creatore: perché solo ad immagine e somiglianza? E si spalancano anche oggi gli abissi oltre il giardino dell’Eden, senza più paracarri a stendere l’invisibile cortina per avvertire del pericolo che ciascuno di noi è per sé e per gli altri. Un elogio del limite è un elogio dell’oltre invisibile. Che si può surrogare con esseri che si trasformano in macchine o con una parola triste come destino, nelle favole che raccontiamo ai nostri bambini. Ma basterebbe ridarsi il coraggio del credo nelle realtà invisibili: che non si toccano, eppure sono lì ad avvertirci, con un soffio fatto di materia, di un angelo che passa nella nostra notte.
Gennaio ‘97