Che la bellezza faccia parte della fede perché è faccia di Dio, ce lo diciamo da molto tempo anche noi. Che la lettera del cardinal Martini abbia sorpreso, è solo la riconferma del baratro che esiste nella cultura, che alla voce religione neppure più può mettere in conto almeno il catechismo di Pio X. Ci rendono belli le cose belle per Dio. E l’arte è una espressione di questa bellezza: da sempre, per tutti gli uomini. Perché la bellezza è verità,

è bene: è la trilogia che ci ha accompagnato nello studio della filosofia, nella ricerca del sapere umano di senso. Edifici, statue, dipinti sono il modo per dire la bellezza da cui veniamo e a cui tendiamo. Opere talvolta riuscite, talvolta no: opere soggette al tempo, da cui pure ricavano bellezza; opere soggette inevitabilmente alla conoscenza del vero, che è molto più del sentire immediato, o della forma che si preferisce.

Pensieri che vengono sottolineati dalle polemiche di questi giorni sulla facciata di San Pietro. Premetto che per me Roma è Roma: strati di storia e della bellezza che i secoli hanno saputo depositare, e che la rendono unica. Roma non ha paragoni neppure con una città d’arte come Firenze, troppo monocorde questa, per essere così trasversalmente universale nei secoli: e nella Roma incorniciata da Tivoli Bracciano e Frascati, e nella Roma dell’Appia antica e imperiale, nella Roma papale, nella Roma romantica e nella Roma moderna. Quando ci torno, respiro, e mi distendo: mi fa sentire piccolo e grande, mi dà il senso delle radici e dei mutamenti. Ora sembra che la si ritroverà cambiata per i grandi lavori di restauro, riportata all’aspetto che aveva appena costruita: così sarà del Palazzo del Quirinale, così è della basilica di San Pietro. Si scrive di tinte finora sconosciute, di colonne venate d’azzurro e di balconi adagiati tra il rosso e il verde cupo, a rompere l’armonia di un corpo chiaro nel compatto colore della pietra. Scomparsi i colori ricreati dal tempo, a definire una immagine di città che non è più quella concepita nelle botteghe dei costruttori: il tempo che lava e patina, il tempo che diventa esso stesso un artista usando i pennelli della pioggia e del sole. E, come dappertutto, la persecuzione delle due scuole di pensiero: chi intende il restauro come un riandare al principio, e chi lo intende rispettoso dell’immagine forgiata nei secoli.

Non è questo posto per dirimere questioni così grandi. Ma, se un cambiamento mi sarebbe piaciuto vedere a ponteggi smontati è la sparizione dell’abbaino, e del retrostante attico, che accompagna tutta la facciata del Maderno. Che è cosa impossibile: ma uno può sognare. Non so se avete avuto la ventura di capitare sul colle che sta a sinistra di San Pietro: una caccia al tesoro che vi indico con il nome della via Marchetti Selvaggiani. Un poggio che vi spiega perché quell’abbaino, pur entrato nello sguardo simbolico del cristianesimo, sia una iattura per la cupola del Michelangelo. Da via della Conciliazione non dice più ciò che è: grandeggiante sull’aggettante tamburo, a comporre in aerea leggerezza la forza che assume dai potenti costoloni; rattenute energie strutturali a descrivere una tensione: una essenziale immagine dell’Evangelo.

Noi intendiamo l’anno del Giubileo come il bene dell’interruzione nella vita della Chiesa. Frenare per accorgersi; e per smontare, pur rispettosi del tempo, le incrostature che riducono la Roma cristiana a una cartolina turistica.