Domenica sera, sono stanco e tra poco celebrerò la messa delle sette. Nel tempio c’è lui, capita due tre volte in un mese: capelli lisci di grasso raccolti dietro le orecchie, i suoi occhi mestissimi piantati su di te a interrogare e a giudicarti, una faccia colorata di sporco che si apre talvolta al sorriso ironicamente divertito quando fingo di maltrattarlo. Da quanto lo conosco? Anni, ormai: da quando era nella sua fase violenta,
da quando gli è successa quella bruttissima cosa che avrebbe segnato per sempre la vita di due genitori, e un poco anche la mia. Lo conosco da tanti anni, quanti ne occorrono per perdonare: che non è un dovere, ma una risorsa da pescare nel più intimo di sé. L’ho avvicinato io, come sempre. Lui stava seduto aspettando, come sempre. “Che sei venuto a fare?”. Mi accorgo che è come un rito, come la messa che tra poco celebrerò: gli faccio le stesse domande, so quali saranno le sue risposte. Ma stasera sento che è diverso. “Sono venuto a vedere se c’è un po’ di misericordia”. “Hai peccati da farti perdonare? Sono qui per questo”. “Ho molti peccati, e tanta fame”. Aggiunge qualcos’altro, di fretta, per paura che il nostro rito si concluda troppo presto: “Quando sono in chiesa – tu sai che entro spesso nelle chiese, io sono un vagabondo, le chiese sono il mio riposo – perché mi viene la voglia di scappar via?”. “Forse perché qui, in questo silenzio, viene a galla lo spreco che hai fatto di te e dei tuoi giorni: e tu non vuoi essere rugato, ancora”. “Perché dici ancora?”. “Perché prima o poi occorrerà che ti decida a vederti, che ti decida ad annusarti”. “Puzzo?”. “Un po’ sì, ma parlavo di un altro odore”. Come posso descrivere quel suo sguardo di cane abbandonato, liquido e mansueto, umiliato e supplichevole? Quello sguardo da sotto in su, lui seduto io in piedi? Gli sorrido, e come sempre mi pento d’averlo condotto sull’orlo di quello che so essere il suo abisso. “Io non ricordo più l’odore buono di una casa”. Lo borbotta senza recriminazioni nella voce: constata senza pretese, con la rassegnazione di coloro che hanno imparato finalmente a non pretendere ormai nulla, ad aspettare solamente che gli altri s’accorgano e non scappino.
Sento il profumo del sapone di Marsiglia, che i miei zii portavano alla nostra ricca povertà dall’hotel Commercio n. 5 di Milano: profumo così essenziale e nitido, a determinare per sempre nelle narici della memoria il buon odore di casa. Gliene parlo: voglio, gli dico, che coltivi la speranza del buon odore che lo farà tornare definitivamente a casa. È intelligente, e capisce di quale casa posso parlare a uno che non avrà più casa. Sta capitando qualcosa di più grande di noi, ma forse è la suggestione della riproduzione di Rembrandt che campeggia illuminata nella penombra del tempio: tra un prete e un vagabondo s’affaccia il Misericordioso.
Si alza: come sempre stende la mano come se non la stendesse, e riceve senza che quelli intorno possano accorgersi. Il suo ciao ha tutta la dolcezza di una assoluzione. Che ricevo con gioia per poter celebrare degnamente i santi misteri.