Un quaderno che cade da uno scaffale dove hai affastellato per anni le cose che non hanno un proprio posto: cose che, nei traslochi, riprendono lo stesso angolo in un altro studio, in blocco, venendo meno alla promessa di uno smistamento. Un quaderno non mio, lo dice la scrittura: di un alunno che me l’ha dato perché lo leggessi? Ma mi pare di vederlo per la prima volta. O è di qualcuno che l’ha dimenticato per casa? Non è recente, sicuramente:

e per la collocazione, e per la patina di sporco che l’ha ingrigito. Solo tre pagine sono scritte: a strappi, come di qualcuno che confessasse sé controvoglia. Con troppe cancellature, senza disegnini, senza altro che alcune parole che stanno tra sensazioni e riflessioni. Banali, scontate, un poco orecchiate come succede a chi non ha ancora la misura della vita. Ma sempre drammatiche, come questa: “Non tocca a noi scegliere chi deve stare con noi”.

Forse un diciottenne, dei primi anni ottanta. Termina così: “L’ultima spiaggia, come Gino”. Così sibillino, perché così abbandonato davanti a pagine che sono rimaste irrimediabilmente bianche, da invogliare a saperne di più: ma come? e che cosa? Perché da alcuni giorni il pensiero della nuca – quel retro pensiero che sai di avere e non si mette a fuoco che per rapidissimi tratti, non utili a un chiarimento – ruota attorno a quel nome, e a quella comparazione? Ricordo solo un ragazzo di nome Gino: ma non credo che c’entri proprio. E poi quell’ ultima spiaggia: così irreversibile! Come le foglie secche sotto un albero, come il grido d’un’upupa ieri, come corpo morto in una bara.

Di quante altre storie si è stinto il ricordo? o quante vite non hai incontrato, per non aver immediatamente risposto? Domande da mese dei morti: difficili da sopportare, inutilmente colpevolizzanti, aridità senza scampo. O domande di inizio Avvento: una stagione liturgica che ha uno sguardo su ciò che è stato, ma per accorgersi dell’inizio che è ridato. C’è chi non attende, e del suo passato si intristisce: delle occasioni mancate, degli amori perduti, della bellezza svanita, del bene omesso, del male compiuto, della verità negata, degli incontri falliti. E chi attende, e impara dal passato l’opportunità che l’oggi è.

Vivi o spenti: i cristiani imparano questo dalla frequentazione liturgica. Poiché nulla è perduto mai, perché tutto sta davanti. Ma a partire da ieri. Ieri la vergine Maria ha detto di sì a un progetto che le sembrava tanto più grande di lei: e ne è venuto un tesoro, per il quale vale la pena oggi di vendere quello che si ha per farlo proprio. Ieri è venuto quel Gesù di Nazareth che oggi puoi incontrare: figlio di falegname, con tutta l’incarnazione di un ebreo, con la sua verità di uomo totale. Anche nella debolezza: che gli offuscava, a lui Figlio dell’Uomo, i giorni che appartengono a Dio.

Chi può dire che l’ultima spiaggia di Gino – il suo grido? – non stesse altrove rispetto a una risposta di uomini? Chi può dire – conturbanti righe bianche a segnalare l’indefinito di ogni vita – che la grazia, invisibile ma certa, non si sia ricamata in arabeschi sul quaderno che tengo negli occhi?