A ottant’anni di distanza, e con di mezzo un muro fatto crollare da quasi dieci anni, ha senso ricordare la Rivoluzione d’ottobre del 1917 in Russia, senza cadere nel tranello degli anniversari, che talvolta, sotto l’esigenza della memoria per non dimenticare, nasconde la paura di affrontare il presente? Ha senso se solo si bada ai molti modi di accostare il tema da noi. C’è il modello tutto sbagliato, che negli anni cinquanta ha avuto nella viscerale propaganda anticomunista dei cosacchi in piazza San Pietro o dei russi che mangiano i bambini il punto più basso di una lettura per slogan; e, come conseguenza nella parte cattolica
dell’Occidente, il modello Fatima: se in Russia è successo quel che è successo, è solo perché si potesse assistere alla grande conversione, predetta dal segreto dei tre pastorelli – prima o poi, e qua e là già con qualche avvisaglia dei segni meravigliosi. C’è il modello tutto va bene, con inutili scalate su pareti di vetro, con distinzioni tra l’idea in sé della Rivoluzione e piccoli incidenti di percorso rappresentati da cattive interpretazioni di uomini come Lenin Stalin e Mao-tse-tung, senza dimenticare il più recente Pol Pot: si difende con turiboli ansimanti l’indifendibile terrore che la Russia e i paesi suoi imitatori hanno conosciuto. E il modello da nevrosi comparativa, che solo con una storia in parallelo tra nazismo e comunismo ritiene possibile uscire dalle secche di un giudizio storico non strumentalizzato: Vassilj Grossman – scrittore russo ebreo, giovane bolscevico degli anni trenta, persecutore e carnefice dei kulaki – si è chiesto “che cosa distingueva la mia, la nostra ferocia, il nostro bestiale ottundimento ideologico, il nostro chiamare quei contadini vermi schifosi, dagli analoghi comportamenti che avrebbero tenuto più tardi le SS contro gli ebrei?” .
Per condannare l’ingiustizia bisogna essere giusti. E la parabola dei kulaki è lì a insegnare. Tra i rossi che razziano i prodotti e i bianchi che minacciano di portare via la terra, i contadini scelgono i rossi. Dopo l’assalto al Palazzo, terribili anni di carestia non piegano le attese dei contadini benestanti, che già fin dagli inizi del secolo avevano ottenuto una distribuzione di piccoli possedimenti: piccolo sprazzo di intelligenza dello zarismo, che i grandi fondiari non raccolgono. E fino alla fine degli anni venti sopravvivono, fino a quando il partito comunista non decide che sono un ostacolo alla collettivizzazione: fatti confluire dentro i kolchoz, sparisce l’attaccamento nobile alla terra; deportati in massa, vanno a costruire il mito industriale dai piedi d’argilla, se la miseria non viene sconfitta e se la vita non conta nulla. Con la loro sparizione, diventano metodo per un ventennio le tre parole di Lenin: fucilare, impiccare, sterminare. E in tutte le direzioni. Quando ci si arrocca dentro se stessi, in una megalomania che non ha più misura, si vedono nemici dappertutto: perfino nei compagni degli inizi, perfino negli striscianti servi di regime. La condanna più feroce di ogni dittatore è la solitudine impaurita, che genera compromessi di ogni sorta, e ingiustizie di ogni colore. Questo la Russia l’ha vissuto sulla sua pelle. E l’ha esportato altrove, con lo stesso metodo: condannare il passato di ogni popolo per il suo male, senza ripartire dal suo bene. Omologando, schiacciando, chiedendo l’obbedienza cieca come fosse una chiesa: una chiesa senza Dio, una chiesa essa stessa divina, a cui offrire sacrifici tratti dalla sua stessa carne.
Così come è stata concepita e costruita, la Russia non è arrivata agli ottant’anni. E non ci arriveranno le altre eredi: la Cina, la Cambogia, e Cuba, e i paesi satelliti dell’est europeo. Perché è una chiesa, come dice V. Vassilikos, che non è riuscita a rispondere alle due domande principali: perché si nasce e perché si muore. E ha impedito che si cercasse risposta in tal senso. Una chiesa che ha fatto dell’umanità un Dio, ma sconfiggendo l’uomo. Ed ogni uomo che apre gli occhi – quest’uomo – si è accorto di avere bisogno di un Dio altro da un se stesso collettivizzato: un Dio cercato insieme, ma un Dio per sé.
A solo pochissimi anni di distanza dalla controrivoluzione c’è un inaspettato ritorno al sogno socialcomunista – che l’occidente ricco ha sempre pensato fallimentare, e dunque sconfitto – proprio là dove sembrava definitivamente rigettato. La Rivoluzione d’ottobre, pur nelle sue nefandezze, può definirsi necessaria al nostro secolo? Delusi e insieme ammaestrati dalla pochezza degli uomini e dei capi, può rinascere il sogno di una umanità che finalmente rigetti fanatismo e inquisizioni? Nonostante nubi di integralismo che ancora ci sovrastano, non si può rinunciare a sperare.