Quando, il giovedì 17 febbraio 1600, si è bruciato un uomo in Campo de’ fiori, a Roma era in corso un grande Giubileo, “un anno di remissione e di perdono, di vera indulgenza e di spirituale allegrezza”. C’era la forza di un Concilio, il Tridentino, che aveva rilanciato combattenti per la fede; e lo splendore di una città rinnovata. La domanda che da quattro secoli percorre le coscienze migliori è perché – proprio in quel contesto di perdonanza – non ci fu perdono per il frate Giordano Bruno.

La risposta che si dà è che ebbe un giudizio equo, niente di illegale nel lunghissimo processo. Ma, ironia della sorte che oppone Giubileo ad Inquisizione, tra i suoi giudici ci sarà quel cardinale, che diventato papa col nome di Paolo V, inciderà il suo nome nel bel mezzo della facciata di San Pietro. Una nemesi storica, una memoria più grande dell’intenzione, per non dimenticare le due facce che talvolta la Chiesa ha mostrato e mostra. Chiama a perdono e non usa il perdono.

Chiede perdono oggi per l’ieri: l’ieri ancora non finito degli Ebrei; l’ieri di Giordano Bruno e di Galileo e di tutte le storie di Inquisizione; l’ieri degli Hussiti e dei fratelli separati nella confessione della fede cristiana. Un bel chiedere perdono, una solidarietà che percorre i secoli per l’unico corpo di Cristo. Ma si sente che c’è qualcosa che non funziona: e non solo perché alcuni vescovi e cardinali – per ragioni diverse ma espresse con toni di uguale insofferenza – non si sono detti d’accordo su questa prassi di fine millennio; non solo per gli sfottò del mondo laico, che vede in questa pratica un ultimo tentativo di riprendersi da parte della Chiesa un potere che non sente più proprio. Si sente che qualcosa non funziona per la natura stessa del perdono: che non è mettere un velo sugli errori, ma lasciarsene interrogare per l’oggi; che non è chiamata a una festa di riconciliazione, ma ad un impegno a non ripetere.

 

Domande non ipocrite

Che è poi il grande problema della conversione personale. Che cosa oggettivamente ci fa cristiani? Ed è possibile in questa vita essere cristiani? O non lo si è mai del tutto, così che occorre accettare la propria debolezza senza tuttavia mai accondiscendere al male? Nell’essere cristiani e nell’accettare la debolezza, quanto conta il perdono, chiesto e dato? E a che cosa impegna quello ricevuto? Non sono domande da manuale di preparazione alla confessione: sono le domande che presiedono una vita pura, non ipocrita. Domande che stabiliscono la relazione giusta con i fatti e le persone nell’oggi. Perché è la mancanza della richiesta di perdono per l’oggi che può spiegare le insofferenze e i sospetti. Chiedere perdono delle colpe del passato è atto che implica il presente: per non ripetere, o almeno per stabilire l’attenzione a che non si ripeta. Con Giordano Bruno, con Giovanna d’Arco e con tutti gli altri, c’è un’esecuzione capitale comunque esecrabile, che potrebbe non lasciar lucidi rispetto al fatto di condanna così come è avvenuto. Come se si potesse distinguere tra ciò che avviene e ciò che è avvenuto, confondendo le modalità – che oggi per fortuna non si ripetono – con i fatti: una mancanza di accoglienza delle tante diversità che hanno diritto nella Chiesa, e fuori della Chiesa. Se si potesse dare un titolo comune alle richieste di perdono che vengono fatte in quest’anno del Giubileo, lo si potrebbe descrivere così: per non aver accettato l’incompiutezza che i cristiani sono nel loro discepolato, sempre. È l’antica tesi dello sconfiggere pensieri e atteggiamenti eresiarchi con la violenza del mettere fuori dalla comunità, che ancora sussiste nella Chiesa: oggi avviene in modi molto più morbidi, ma non meno dolorosi. Soprattutto perché oggi la Chiesa è tentata dalla propria insignificanza riguardo alla fede di fronte alla indifferenza del mondo.

 

Di che cosa accorgersi

Alla domanda perché la Chiesa c’è, essa può essere tentata di affermarsi con atti di forza: una spettacolarizzazione della propria immagine, che sacrifica la solennità del contenuto di fede al fasto della comunicazione di massa; un inseguimento delle forme mondane di proselitismo, mortificando la diversità evangelica con raduni oceanici di gente attorno all’effimero; una riduzione a farsi accettare per le opere di carità che sa compiere; una esasperazione dell’uniformità sull’unità, che permette così la prevaricazione della logica diplomatica dei nunzi vaticani sui vescovi che presiedono le Chiese locali, e una certa venatura di nuovo nepotismo teso a conservare il consenso in chi è a capo. Che è poi la derivazione dall’elefantiasi di una Chiesa che non si sorregge più con la sobrietà dell’invio evangelico: dei circa quattromilacinquecento vescovi attuali, la metà sono o ausiliari o addetti alla curia romana, con uno scadimento del ruolo episcopale nell’onorificenza che dice molto sull’immagine della Chiesa che si ha, di fatto umiliando l’apostolicità dei dodici, e l’originalità dei “due a due”. Come meravigliarsi che poi questa gran macchina produca editti che sconfessano encicliche, o direttòri che soppiantano il Vangelo? Di questo occorre oggi chiedere perdono per poter cambiare: perché anche oggi ci sono “uomini piccoli, scarni, con un po’ di barba nera, sui quarant’anni”, che si chiamino Giordano o Ignazio non importa – per dire di due contemporanei mandati a noi con un ritratto fisico quasi uguale e con una vicenda spirituale sostanzialmente non dissimile nonostante la diversità nella conclusione terrena. Una “perdonanza dentro”: a prescindere dal fuoco e dalle ruote di tortura. Un chiedere perdono dei gesuiti, ma anche ai gesuiti, tanto per passare attraverso un paradigma di reciprocità che si è più volte ripetuto nella Chiesa cattolica. Un chiedere perdono oggi, agli uomini del nostro tempo, che hanno diritto alla visibilità più ampia del Vangelo attraverso la purezza la più grande possibile degli uomini di Chiesa. Senza fondamentalismi, riconoscendo che la debolezza dei cristiani può stare anche nel non sapersi accorgere subito, e sapendo che la salvezza cristiana non sta di per sé nel chiedersi perdono: ma per cambiare, oggi, occorre alla fine uscir fuori dal chiedere perdono per il passato, e accorgersi dell’uomo che oggi affliggo, a cui oggi carico pesi insopportabili.

 

Il prendere la parola

Sono i grandi snodi su cui sentono l’impellenza di un confronto apostolico alcuni vescovi cattolici. E sono i nodi su cui la reazione dei laici prende due strade tra loro molto diverse: la defezione e la presa di parola, per usare due categorie sociologiche, che, dice Paul Valadier della rivista Ètudes, possono essere applicate anche alla realtà ecclesiale di questi anni. Sulla prima reazione, non può mancare la preoccupazione: c’è stato un esodo di massa dalle chiese, compresa la cattolica, al di là dei numeri di chi ancora si fa battezzare: per alcuni è l’unica via d’uscita “per sopravvivere”, quando sembra impossibile modificare lo stato delle cose per una sordità tra vertici e base. Ma resta una fuga, un impedirsi di esserci a “prendere la parola”, – che è l’altra reazione, la reazione positiva di chi, pur soffrendo la stessa sordità, non rinuncia, non si ritira, sta dentro, sentendo il di dentro l’unico luogo di professione della sua fede. Per non rinunciare alla profezia, che sta talvolta nell’evangelizzare e talvolta nel restare muto (E. Bianchi). È a questa gente – che se parla è tuttavia muta perché se ne impedisce la risonanza, essendo di natura scomoda rispetto all’istituzione – a cui si deve nell’oggi chiedere perdono. Per cambiare. Per non uccidere i profeti, come fecero i nostri Padri; per non aspettare la loro morte per riconoscergli ragione; per non spingere alla defezione, oggi, quanti cercano nella Chiesa le vie della salvezza.

È un buon tema. Lo si può percorrere ciascuno nel suo ruolo, di vescovo, di frate, di prete o di laico: ma non si schiverebbe l’ipocrisia se prima non lo si affrontasse in prima persona. Io, so accorgermi del male che provoco, per chiedere nell’oggi perdono?