In molte diocesi ci si preoccupa di dire che questo anno giubilare di attenzione al Padre non dovrebbe interferire, ma solo supportare le programmazioni delle singole comunità. Ed è bene così: lo specifico del Padre nell’opera d’amore ha alcune sue linee obbligate – obbligate sempre – proprio da ciò che ci è stato rivelato da Gesù. È un’ottima occasione, questo particolare anno giubilare, per mettere il puntino giusto sull’i di Dio: che è poi

affidarsi alla verità sul suo Nome, e dunque su Lui, che è ben più grande delle nostre descrizioni e dei nostri sentimenti, e dei nostri piccoli orizzonti. Restando naturalmente avvertiti rispetto al nostro linguaggio su Dio, che resta comunque inficiato da un’antropomorfismo difficilmente superabile nella nostra condizione umana.

 

Paradigmi obbligati

Vi sono, certo, paradigmi obbligati sul tema del volto del Padre, da cui non si può prescindere in un anno come questo: ci sono le parabole della misericordia (tra cui spicca quella del padre misericordioso e dei due figli entrambi lontani), ma c’è tutto il riferimento a un Dio Padre conosciuto soprattutto nella manifestazione in Gesù di Nazareth, e della conseguente intimità stabilita con Lui. Sono le pagine dell’evangelista Giovanni: chi vede me, vede il Padre, e tu che da tanto tempo sei con me, ancora non vedi? L’apostolo Filippo è ciascuno di noi che interroga sempre: desiderosi di certezze sulla meta, e sulla via. Sono paradigmi che possono mettere in ansia, data la vastità delle prospettive: il Padre è all’origine di tutto quanto si pronuncia sul nome di Dio, all’inizio stesso del Figlio e dello Spirito, all’inizio del mondo, all’inizio del riconoscimento di sé come creatura ferita. All’inizio soprattutto della Parola data: ed essa stessa può divenire “l’immagine instabile del volto di Dio” (P. De Benedetti): ora la voce potente di Esodo ora la voce di silenzio sottile del libro dei Re. Ecco perché un percorso quasi obbligato, tra tante definizioni di Dio, è quello di lasciarsene insegnare il Nome: che poi è sfuggire alle idolatrie, e alle immagini di Lui che non lo rappresentano affatto. (Credo interessante, a questo proposito, segnalare il libro: Chi è come te tra i muti? Lezioni promosse e coordinate da C.M. Martini, ed. Garzanti: il silenzio di Dio è uno dei temi che più sollecitano la nostra fede, e più avvertono dei pericoli del dire su Dio).

 

Accettare le parzialità

Per sconfiggere l’angosciante pretesa di dire tutto su una tematica così vasta in un tempo così breve come è un anno, una buona programmazione pastorale qui più che altrove non può prescindere dal limite delle parzialità: occorre consentirsi un avvicinamento al Padre da angolature catechiste, celebrative, ecclesiali, che possono dire tanto senza la pretesa di esaurire il tutto. È un agire per categorie di sintesi: permettono di affrontare un titolo – una parabola della misericordia o il Padre nostro o le più impegnative pagine del vangelo di Giovanni sulla relazione del Padre con il Figlio – dentro un incontro e un momento particolare, senza la preoccupazione di fondare ogni volta teologicamente l’argomento, in una consequenzialità che diventerebbe operazione da manuale più che un vissuto di Chiesa. Proprio questa vastità che il Padre è, può pedagogicamente ricordare il metodo proprio della pastorale: che è di attendere alle domande di senso di ciascuno, offrendo percorsi diversi, non esaustivi quanto al deposito della fede, ma esaurienti rispetto alle attese vitali; e le attese vitali si nutrono del momento e dell’occasione, non di argomentazioni universali. Così nei ritiri e negli esercizi spirituali parrocchiali, negli incontri di catechesi delle case, nelle celebrazioni di preghiera, nelle assemblee di verifica dei settori e dei gruppi, quello che conta è che il conduttore sappia questo limite, e dunque si prepari remotamente a saper proporre il massimo nel minimo richiesto. Così nei pannelli e nei cartelloni di richiamo, dentro i luoghi di comunità, sarà bene centrare i richiami affidandosi alla Parola di Dio, sfuggendo così a possibili sdolcinature del tutto improprie rispetto al nome sacro del Padre, e sfuggendo a vaghezze che non solo non insegnano, ma possono far deviare dai contenuti della fede in Lui.

 

Il sottofondo

            [ Un primo filo rosso è la morte introdotta dal peccato: tutta la paternità divina sarebbe incomprensibile senza le prime pagine di Genesi, senza il momento del distacco. Si può ripartire dalla riflessione su questo tema così accantonato dagli uomini del nostro tempo, così in sordina persino nella predicazione, per annunciare che le cose di dopo hanno il loro senso solo in questa tragedia, in questo fallimento dell’umanità rispetto ai propri progetti. Una societas che si ritrova senza padri diventa un’umanità che sta facendo risorgere il dio morto in una propria immagine, e a somiglianza dei propri desideri: solo il tema del fallimento, della ferita perenne, può ri-chiamare Dio con il nome di Padre. È il tema che le pagine del vangelo di Giovanni esplicitano con i verbi di “vedere e mostrare”: è la vita illuminata a partire dalla morte che può buttare luce di verità sulla creazione e sull’uomo in essa.

            [ Il distacco propone il tema del ritorno, nell’accezione di conversione che soprattutto la parabola del padre misericordioso esalta: non a partire dalla propria lucidità – il prodigo resta pur sempre opaco, e molto mediocre, nella sua determinazione – ma richiamati misteriosamente dall’attesa spiante del padre. È la sottolineatura della debolezza di Dio: è capace di sofferenza per amore, e scegliendo di essere Dio-con-noi, rivela quanto Gli è necessario il ritorno di ogni uomo. Debolezza che tuttavia descrive un Dio forte, che è ben altra cosa dalla tipologia dell’onnipotenza nella quale siamo stati educati: forte nell’accoglienza, forte nel perdono, forte dunque nell’uscire da Sé perché l’altro ritrovi se stesso, nella perduta dignità che la festa della parabola sottolinea. Ma forte anche contro: resiste al figlio maggiore che vuole rovinare la festa – e dunque non vuole riconoscere la gratuità di quel Padre che ridà nuova dignità al fratello; e pone i termini di una salvezza altra rispetto alle opere giuste di farisei pur giusti. È il tema che descrive la novità del Dio biblico: e solo essa conduce a un ecumenismo intraecclesiale, e all’ecumenismo rivolto a chi chiama Dio con altro nome.

 

Il metodo

Proprio per non sovraccaricare rispetto a quanto già una vita di comunità regolarmente propone, e proprio per non fare discorsi a parte, il metodo che si suggerisce è quello dell‘attraversamento. È dunque un sentire sotteso quello che è richiesto, un acquario da cui trarre il nutrimento utile alla fede, comunque sia chiamata ad esplicitarsi: e dunque, a partire dal Padre che si vede nel Figlio, un rileggere le nostre opzioni rispetto alla vita e alla eternità. È un ribadire innanzi tutto per sé, nella corteccia della mente e del cuore, quanto appartiene alla totalità del credo, quanto sorregge la speranza. Attraversare dunque i tempi e i modi che già sono dati: l’anno liturgico, le convocazioni di vario tipo, e non ultimi, gli incontri personali, saranno poi mille momenti che faranno scaturire spontaneamente misericordia, provvidenza e presenza, le virtù sperimentabili di Dio. Perché, se un risultato è auspicabile, un anno con il Padre dovrebbe finalmente negare le pretese di metodicità a favore dell’incontro che scalda il cuore.