Non è che la rivendicazione abbia dei risvolti strettamente religiosi. A meno che finalmente si condivida che ogni azione umana è sacra. Dunque rispettare insieme certi giorni li fa uscire dall’idea del riposo fisico, e li immette dentro il concetto della festa. Che è riabilitazione di tutto l’uomo. in sé e nella relazione. Rispettarli insieme, quei giorni: quello che non capita più a cassiere e operatori dei centri commerciali, aperti 361 giorni all’anno su 365 (e recentemente anche 24 ore su 24).  Non c’è più l’insieme ritmato sui sette giorni delle famiglie, e neppure della comunità in cui si abita. Avere il giorno di sosta dall’occupazione, quando gli altri sono altrove – a scuola, in ufficio, sui cantieri – quanto incide sul ritmo mentale e spirituale di una persona? Dunque la rivendicazione di questi giorni che chiede di chiudere tutti i supermercati a Pasqua, assume solo il valore di un segno: chiudere ma per aprirsi. Un giorno in più, ma restano gli altri cinquantacinque da reclamare. Soprattutto li dovrebbero reclamare i credenti cristiani, che di ogni domenica sono chiamati a fare una Pasqua. Un po’ difficile in una società ormai multi religiosa? Sicuramente ci potrebbe stare la rivendicazione del venerdì islamico, e del sabato ebraico: che sarebbe finalmente una soluzione rispetto a quel lavorare meno, ma lavorare tutti, che oggi sembra proporsi con forza; il che darebbe ben tre giorni settimanali alla festa: uno per camminare scoprendo il passaggio delle stagioni (quelle nuvole bianche di ciliegi in fiore che tappezzano questa collina di Fontanella!), un altro per contemplare da dentro il pulsare della vita, e un terzo per immergersi in una convivialità che superi le personali tribù. Utopia?  Se utopia è un ideale non destinato a realizzarsi sul piano reale, tuttavia ha una sua forza stimolatrice nei riguardi dell’azione politica, “nel suo porsi come ipotesi di lavoro o, per via di contrasto, come efficace critica alle istituzioni vigenti”.  La domenica come eversione rispetto a questa maniera di continuare a forgiare il mondo dentro cui ci costringono a stare; e per i cristiani, la domenica come scampo alla piattificazione della vita che li sta rendendo di forma pagana. In più occasioni ho ricordato quella saggezza dei primi discepoli del Risorto. Anche allora ci si sposava per amore, naturalmente. E l’amore, si sa, non ha confini, travalica etnie e colore e odore della pelle. Allora, forse con un po’ di differenza rispetto ad oggi (siete d’accordo?) c’era una visione della vita più profonda del pur importante apparire dell’amore. C’era il perché molto pronunciato generato da quello che si vive, andando: e dunque il discernimento rispetto alla meta. E quando succedeva che una ragazza si innamorasse di un pagano – bello, attraente, giudizioso, ma pagano, e dunque con la propria idea sulla vita le si faceva una semplice, indispensabile domanda: e non per impedire, ma per avvertire su quel che conta ancor più dell’amore per una creatura: quell’uomo, la notte santissima della Pasqua, ti permetterà di venire a celebrare la speranza della nostra vita?  e cioè l’amore donato che prende “nuova carne” risalendo dalla tomba?  e che poi è quello per cui siamo incamminati, sostenendoci l’un l’altro per non mancare l’arrivo? No, non è per questa Pasqua che oggi si minaccia uno sciopero. Ma sarebbe bello, oltre che giusto, che quei dipendenti che sono credenti, mettessero, nelle loro rivendicazioni, e primariamente, questa motivazione. Che è poi avvertire che si lavora per vivere, e non si vive per lavorare. A Pasqua, e in tutte le pasque settimanali: da celebrare insieme nell’intimità più vasta che Essa, che esse, pronunciano: per i cristiani, ma per tutti.