Abitavo al confine con gli ambrosiani, che, si sa, si sentono un po’ diversi. Così le loro tradizioni, scavalcando facilmente il fiume, ci hanno contaminato. Per i doni, intendo, e per quel magico venire dall’aldilà di figure benefiche. Una trepidazione, che in famiglia si alleava a silenzi, a sorrisi, a muschio da raccogliere, a cartapesta da ricomporre in montagnole. Non del tutto,  la contaminazione: non so come dire, ma santa Lucia c’era, seppure solo per qualche mandarino. Chi contava era Gesù bambino. E il mattino di Natale vedevi che era passato lui: un bel po’ di roba, anche se di prossima utilità: guanti nuovo, calze nuove, una sciarpa calda calda, e frutta secca e altri mandarini (quelli veri, quelli col nocciolo e il profumo, che adesso sono giù di moda). E per le bambine capitava, un anno, la bambola che avrebbe accompagnato tutta l’infanzia; per i maschietti un cavallo a dondolo, su cui si dondolavano per qualche ora, il giorno stesso, per poi abbandonarlo nella vastissima soffitta piena di cose impolverate. Comunque: Gesù bambino o santa Lucia, quelli erano. Adesso tocca  a un giovane prete soffrire il lamento di una di quelle mamme illuminate che gli rimproverano di togliere magia all’attesa: perché non parla del babbo natale, quel barbuto sovrappeso che le renne trasportano da una città all’altra. Una discontinuità che chiede di essere guardata bene, per la mediocrità che propone; e per tutte quelle mediocrità che ormai si scontrano con il Vangelo del Signore. E se dunque in questo Natale andasse meno gente in chiesa, perché finalmente s’accorgesse della distanza tra quel che pensa in proprio – o in coda a qualche guru mediatico – e quel che il Vangelo chiede, capite che non sarebbe una perdita. Ma, forse, potrebbe essere il primo passo per accorgersi della necessità di  una discontinuità tra abitudini che non cambiano la propria vita e un agire che cambia la vita altrui: come si può cantare il freddo e il gelo del bambino di Betlemme, rifiutando di lasciarsi prendere le viscere dal freddo e dal gelo dei bimbi – bimbi che tutti rimaniamo, a qualsiasi età, se riconosciamo il bisogno come condizione umana – bimbi che attraversano il mare per trovare terra? Una discontinuità che non può non scendere dai pulpiti delle chiese cristiane, nella santa notte e in tutte le notti di questa ottusa umanità. Poiché il Signore salva nella storia che viviamo, e non dalla storia; non ci chiama fuori, ma vuole immergerci; e questo significa che occorre saper vivere le tensioni di un cambiamento. Che può essere difficile, che può portare a sentirsi su sponde diverse: ma è lì che avviene il “concreto vivente”, non in un utopico paradiso recintato, quale vorremmo figurare questo nostro cadente Occidente. Le resistenze a questa discontinuità, se sono ragionate ben vengano: non possono che migliorare la conoscenza del momento storico che viviamo. Ma se  – facendo eco a parole di Francesco papa – nascono dai cuori impauriti o impietriti che si alimentano dalle parole vuote del “gattopardismo” spirituale di chi a parole si dice pronto al cambiamento, ma vuole che tutto resti come prima; o se sono malevole, ché germogliano in menti distorte e si presentano in veste di agnelli, in nome del buon senso che non è altro che egoismo da lupi: allora no. Siti e antenne, blog e social somministrano paure su misura, sospetti e inimicizie. Se non quando odio. E’ questo il tempo di reagire a quella mormorazione di sottofondo che c’è oggi nella Chiesa, e che prende di mira gli orientamenti di Francesco, un papa mandato a snidare accomodamenti scandalosi e rigidità farisaiche: non solo sono operazioni teologicamente approssimative, ma soprattutto esistenzialmente aride. Il Natale può diventare la loro occasione vera di discontinuità. Lo si faccia diventare: è un dovere di battezzati aiutare i fratelli a non nascondersi. Senza cacciar fuori nessuno, ma a tutti dicendo di misurarsi finalmente sul Vangelo, che denuda, che non lascia scampo alle nostre miserie di uomini impauriti dalla novità che salva. Non la forza, se non quella della debolezza che ci portiamo nella carne; non l’esclusione, ma l’ospitalità che dà un tetto a Dio che viene nell’uomo: e questo è il Natale cristiano.