S’aggira per l’Europa da un secolo. Come un fiume carsico si spande, si rintana, e spesso minaccioso riemerge. Si camuffa, come un attore che impersona di volta in volta il dr. Jekyll o mr. Hyde. Ha in uso da sempre una camicia: può cambiare il colore da bruno a verde, ma l’anima, quella, non la cambia. Quella ha il colore nero della piccineria: un’anima rinsecchita, dalla pelle sgualcita. Il corpo, quel che si vede, no: fuori può ingannare con segni di filantropia. Persino di Robespierre si dice che avesse a cuore la felicità degli umili, una condizione degna per tutti: purché non “meritassero” la ghigliottina. Purché fossero dei “nostri”. Purché (è l’ultima versione dei camuffati) siano veri profughi, perché quelli li prenderebbero anche in casa propria – se avessero spazio, dato che vivono in qualcosa di poco più di un monolocale, dicono. S’aggira il mostro del razzismo (lo si chiami come si vuole, ma tale è). E le recenti aperture, e finalmente! certo, degli altri paesi europei agli immigrati non deve distrarre quanti vivono sulla sponda opposta ai camuffati, quanti si battono contro l’ipocrisia delle ragioni affidate alle piazze televisive. Scrutate le facce di quelli radunati all’ora di cena davanti allo schermo casalingo, o di chi sta sotto un palco, seduti a tavolate birrose. Sono operai smarriti per il loro mille euro al mese, impiegati frustrati, avvocaticchi senza cultura, compulsivi frequentatori del calcetto a cinque, o pensionati frequentatori di panchine annoiate: lì a recitare un ruolo, anche muto, per assumere la rilevanza che non credono di poter avere altrimenti. Fomentati, fomentano. Non tutti sono depressi, alcuni hanno la timidezza che costeggia la patologia: per questo urlano. Alcuni, seppure ingannati, affrontano di nuovo la vita, attraverso una realtà sfalsata. E si immettono ormai protagonisti del voto che danno: fan parte di una legione. Sono qualcuno. Ci sono. Io ci sono. E gli altri assaggino il nostro potere: i nostri muri. E si credeva che quel di Berlino sarebbe stato l’ultimo, immersi nell’euforia del violino di Rostropovic, e nella armonia di picconi che lo demolivano! E invece ne sono venuti altri, in questo pugno di terra che dal Mediterraneo sale al Baltico: fino a quella rete, che, mentre impedisce, sfida a scrutare l’altrove negato. E fa specie che siano ora i paesi dell’est, raccolti a cucchiaino dalle macerie sovietiche, ad opporsi a queste carovane migranti, neppure nascondendo la loro inclinazione fascistoide. Sono molte le possibili provocazioni di questi giorni: a un cristiano che voglia essere un responsabile cittadino è chiesta la vigilanza: la stessa che fu di qualche vescovo tedesco contro il nazismo (qualcuno, non tutti, non subito: il piccolo gregge che segue il Cristo può veder fuori anche i vescovi, e non solo i preti, e non tanto i battezzati, dal coraggio di denunciare ad alta voce, e senza bizantinismi): vescovi che usarono del pulpito per ammonire, richiamare con forza, subendo persecuzioni. Oggi, è la parola del papa che guida: per questo molti si sottraggono, distinguono, si oppongono? Uno straccio di camicia colorata di quel colore, del privilegio della razza del potere, può forse essere anche in noi, i credenti? La paura del nuovo, e dunque dell’altro, è la negazione dell’Incarnazione. Ce lo ricordassimo, nelle piccole e grandi svolte della storia. A piedi scalzi, se serve per accomunarsi seppure a distanza, perché no?