“Se siamo capaci di investire tante energie per la guerra, perché non facciamo altrettanto per costruire la pace?” ripete il gran vescovo Bettazzi: già propulsore di Pax Christi in Italia, forse allora pensando ai grandi conflitti mondiali, e meno a quelli italiani. Quelli che sono arrivati, in questi ultimi mesi, a un vero e proprio guerreggiare tra parti opposte – per il momento senza spargimento di sangue, ma per il momento – con tuttavia violenze parlamentari degne dell’aula sorda e grigia degli anni venti del secolo scorso: e tutto nella previsione di prendersi manciate di voti, cavandoli dalla pancia della gente, con cui rinforzare la poltrona del proprio cervello senza sinderesi. Insulti fatti diventare slogan che rasentano razzismo e sessismo, in una chiamata alle armi che fanno, di tanti sedicenti rappresentanti del popolo e loro seguaci, dei graffitari sconci sui muri dei siti web. A volte si potrebbe pensare che molta acqua battesimale sia andata sprecata; e dunque –  avviso agli interessati – è inutile che si chieda lo sbattezzo: si potrebbe già essere inseriti nella categoria di quanti sono passati attraverso il segno, sensibile ma inefficace su di loro. È un nuovo possibile presumere tomista? I fatti di questa patria di navigatori e poeti, e di quanto altro ci hanno illuso di essere, dicono che adesso non è più patria di santi, nel significato di santificati: è troppa l’assenza dei doni dello Spirito che fin dal Battesimo sono dati con l’unzione crismale! È vero che lorsignori non sono gli italiani, ma sono molti di costoro che li mantengono lì: così, contro tanto becerume, un  vescovo ha potuto scandire uno scan-da-lo-so che non si sentiva da decenni dalla bocca della Chiesa in Italia. Che, se nella prima repubblica ha tenuto i suoi intrecciparticulari con parti non sempre sacrosante della politica italiana, aveva tuttavia come interlocutori persone di una, almeno passabile, dignità. Ma davvero la pace vale la guerra? Non ricordo se nell’Iliade o nell’Odissea: il gran poeta scrive che le guerre sono un dono degli dèi, perché  sennò ci sarebbe poco da raccontare. Se si potessero dimenticare le meschinità che le fanno scoppiare (questo pezzo di terra è mio) e le atrocità che provocano (lacerazioni di corpo e di anima) si potrebbe condividere. Poi, infatti – al lume ella tua infanzia – ci si racconta storie di amicizie che hanno la loro essenzialità desiderabile, nella loro inconfutabile verità: nel fango di una trincea a cullare un compagno sull’orlo della morte, o nelle marce senza scarpe, spalla a spalla per tenersi su, verso la Francia da conquistare!; o nella scheggia da bombardamento che si prende tua zia nel coprirti bambino; nel pane nero condiviso con chi neppure quello ha, o nell’aprire la tua casa agli sfollati dalla metropoli, che non dimenticheranno più di essere stati per qualche tempo la tua famiglia. Preferiremmo non avere storie così? Storie del fronte e storie delle retrovie? Sì e no. Come ci si convince al bene che le amicizie danno alla pace, se non ci fosse il dramma a ricordare che non c’è retorica nella vita? E che l’amicizia sta lì a dirti che se tradisci, tradisci la vita e inneschi una guerra? Cruenta o incruenta, l’una non è meno insana dell’altra. Investire nella pace è investire nel prossimo che ti è dato come salvezza, non tradendolo per qualcosa che non si dà: non conta chi lo dice, conta che lo si sappia.