Qualche lettore si meraviglia che da qui non sia in un anno comparso il nome di David Maria Turoldo. La “sfida”, come è stata chiamata dai media che hanno corveggiato, nel giugno dell’anno passato, sul cambio di guardia in questa Rettoria vescovile, qualcuno non la vede. Non la vedrà. Quel frate, quel poeta, quel politico è stato unico. Lui, e nessun altro come lui: magari meglio, ma non come lui. Morto ormai da più di vent’anni, è tenuto vivo dalla memoria non sempre vera; ma soprattutto dal saccheggiare diffuso dei suoi scritti: piegati a sé, senza talvolta l’esegesi di testi che sono nati in giorni di gioia o di angoscia su questa collina che emana effluvi di fascino, e di solitudine. Applicati a sé, senza alcun filtro da anima ad anima, la sua e la nostra. Non è il solo saccheggiato, è vero; ma chi si vuol pitturare di un di più mette le mani sulla sua cospicua, diffusissima produzione, in un copia e incolla che non rispetta quello che è stato, nel bello e brutto tempo della sua vita: da uomo totale, friulano di corporatura e di spirito da frontiera, ridotto a un guru, nelle meste cantilene degli uni, e a un totem buono per tutte le frenesie nelle leggende inventate da altri. In un incontro con lui – qui, sopra lo studio in cui sto scrivendo, nel piano alto della torre (forse è il contro-segno rispetto alla “sfida” cui mi si voleva chiamare) – giovane parroco io, affermato e in piena salute lui, una piacevolissima conversazione:  non il Turoldo furioso per le vicende di una politica insana, non quello amareggiato per una Chiesa che non sa dipanarsi da sé verso il mondo. Il Turoldo intimo, a cui con faccia tosta propria dell’età gli potevo far notare, non poco maliziosamente, se la vanità era ancora un vizio per lui. Ma era lui. Un mito, avrei detto allora, nel linguaggio giovanilistico, quello, ricordate? della “misura- in-cui”. Da rispettare, con il pudore di chi non si appropria dell’anima altrui tradotta in parole: che è poi l’accidia per non scavare dentro sé, a trovare parole della propria anima da dare a chi si offre. Non è bello saccheggiare così. Servirsene per sé, sì, ma per lungo tempo fino forse a un mai, se non si arriva alla turbolenza dello spirito di chi si saccheggia. Prima, è un sopruso: che non resuscita chi ne violenta segreti di vita, senza averli di proprio attraversati. Per versi  come questi, e saccheggio io rischiosamente,  

 Tornata e? la quiete, 

anche il vento riposa,
non c’e? più nessuno 
nell’ Abbazia:

ma io non chiuderò le porte: 
Qualcuno, sono certo, verrà:

cosi? attendo sereno la Notte.

 chi li può offrire se non chi vive di una qualunque abbazia, in qualunque dimora apertamente rinchiusa; se non chi è stato avvolto da un vento, qualsiasi nome abbia – o il secco favonio che scende dalle Alpi, o l’Ora dolce che sale dalla valle dell’Adda;  se non chi ha rischiato almeno una volta, almeno una notte, di non chiudere le porte del suo abbraccio? Non è solo così che Qualcuno e Notte possono avere la maiuscola dell’eterno?