Non più un uomo

Ma ora che sei morta, o madre,

io so le volte che mi hai generato.

In silenzio, non vista d’alcuno.
Quando nato appena
a farti male iniziai, a rompere
con sassi il giuoco sulla piazza
tu mi rimettevi dentro il grembo
a concepirmi ancora.
Bello mi volevi, uguale
al figlio di Maria.
……

Così, o madre, non più un uomo hai partorito.
Ormai non solo i tuoi figli sono
ma tutto il popolo.
E tu vestita a festa
e sempre all’ultimo banco
da lassù ti vedo quando
allargo sulla gente le braccia,
tu ancora continui a generarmi
in perfetta verginità e pianto.

D. M. Turoldo

 

Il digiuno del Papa

… è il giorno del digiuno chiesto da Papa Francesco per la pace nel mondo. Certo non tutti aderiranno a questo digiuno, ma tutti hanno applaudito all’iniziativa. Si è detto che sarà un gesto altamente simbolico che eserciterà una qualche pressione sui grandi della terra chiamati a prendere importanti decisioni. Si è detto anche che il digiuno ci indice a contenere le nostre brame di possesso, ci educa a tenere lo sguardo fisso sull’essenziale, ci invita alla sobrietà. Qualcuno ha perfino commentato che saltare un pasto fa bene alla salute, perché siamo abituati a mangiare troppo. Tutte cose vere, ma è mancata tuttavia l’osservazione più importante, l’unica veramente essenziale: il Papa intende il digiuno come una forma di preghiera rivolta a un Dio che non è responsabile di quel che accade nel mondo, visto che ha lasciato agli uomini il libero arbitrio, ma che può intervenire nella storia per cambiarne il corso. II Dio della Bibbia è il Dio che, per intercessione di Abramo, può salvare Sodoma e Gomorra se trova in esse anche solo dieci innocenti. E’ insomma il senso della Provvidenza che muove la richiesta di papa Francesco. Certo, per credere a tutto questo ci vuole la fede. Montanelli diceva che avrebbe sacrificato tutto, anche la vita, per avere la grazia della fede; diceva che se un giorno avesse incontrato l’onnipotente gli avrebbe rimproverato di non avergliela concessa. Credere non è per tutti e il Papa ovviamente lo sa. Infatti quando propone il digiuno, anche per i non credenti, non pretende da loro un significato diverso da quello di un gesto laico, sbaglierebbe se lo pretendesse. Ma sbaglia anche chi pretende che pure il digiuno del Papa (e il nostro!? n.d.r.) sia un gesto solo terreno. E’ un errore che si sta ripetendo spesso con Bergoglio: lo si considera il capo di una grande ONG e si dimentica che invece è, appunto, un Papa, il quale non ripone le sue speranze in Obama, Putin o Ban ki-moon.

Michele Brambilla (La Stampa)

lettera delle quattro suore trappiste in Siria: il sangue riempie le nostre strade, i nostri occhi, il nostro cuore

«Vediamo la gente intorno a noi e pensiamo: “Domani hanno deciso di bombardarci”». Oggi non abbiamo parole, se non quelle dei salmi che la preghiera liturgica ci mette sulle labbra in questi giorni: «Minaccia la belva dei canneti, il branco dei tori con i vitelli dei popoli… o Dio disperdi i popoli che amano la guerra…». «Il Signore dal cielo ha guardato la terra, per ascoltare il gemito del prigioniero, per liberare i condannati a morte»… «ascolta o Dio la voce del mio lamento, dal terrore del nemico preserva la mia vita; proteggimi dalla congiura degli empi, dal tumulto dei malvagi. Affilano la loro lingua come spada, scagliano come frecce parole amare… Si ostinano nel fare il male, si accordano per nascondere tranelli, dicono: “Chi li potrà vedere? meditano iniquità, attuano le loro trame. Un baratro è l’uomo, e il suo cuore un abisso”. Lodate il mio Dio con i timpani, cantate al Signore con cembali, elevate a lui l’accordo del salmo e della lode, esaltate e invocate il suo nome. POICHE’ IL SIGNORE E’ IL DIO CHE STRONCA LE GUERRE. “Signore, grande sei tu e glorioso, mirabile nella tua potenza e invincibile”».  Guardiamo la gente attorno a noi, i nostri operai che sono venuti a lavorare tutti come sospesi, attoniti: «Hanno deciso di attaccarci». Oggi siamo andate a Tartous… sentivamo la rabbia, l’impotenza, l’incapacità di formulare un senso a tutto questo: la gente cerca di lavorare, come può, di vivere normalmente. Vedi i contadini bagnare la loro campagna, i genitori comprare i quaderni per le scuole che stanno per iniziare, i bambini chiedere ignari un giocattolo o un gelato… vedi i poveri, tanti, che cercano di raggranellare qualche soldo, le strade piene dei rifugiati “interni” alla Siria, arrivati da tutte le parti nell’unica zona rimasta ancora relativamente vivibile… guardi la bellezza di queste colline, il sorriso della gente, lo sguardo buono di un ragazzo che sta per partire per militare, e ci regala le due o tre noccioline americane che ha in tasca, solo per “sentirsi insieme”… E pensi che domani hanno deciso di bombardarci… Così. Perché “è ora di fare qualcosa”, così si legge nelle dichiarazioni degli uomini importanti, che domani berranno il loro thé guardando alla televisione l’efficacia del loro intervento umanitario… Domani ci faranno respirare i gas tossici dei depositi colpiti, per punirci dei gas che già abbiamo respirato?

La gente qui è davanti alla televisione, con gli occhi e le orecchie tesi: «Si attende solo una parola di Obama»!!!! Una parola di Obama?? Il premio Nobel per la pace, farà cadere su di noi la sua sentenza di guerra? Aldilà di ogni giustizia, di ogni buon senso, di ogni misericordia, di ogni umiltà, di ogni saggezza?

Parla il Papa, parlano Patriarchi e vescovi, parlano innumerevoli testimoni, parlano analisti e persone di esperienza, parlano persino gli oppositori del regime… E tutti noi stiamo qui, aspettando una sola parola del grande Obama? E se non fosse lui, sarebbe un altro, non è questo il problema. Non si tratta di lui, non è lui “il grande”, ma il Maligno che in questi tempi si sta dando veramente da fare. Il problema è che è diventato troppo facile contrabbandare la menzogna come nobiltà, gli interessi più spregiudicati come una ricerca di giustizia, il bisogno di protagonismo e di potere come “la responsabilità morale di non chiudere gli occhi”… E a dispetto di tutte le nostre globalizzazioni e fonti di informazioni, sembra che nulla sia verificabile, che un minimo di verità oggettiva non esista… Cioè, non la si vuole far esistere; perché invece una verità c’è, e gli uomini onesti potrebbero trovarla, cercandola davvero insieme, se non fosse loro impedito da coloro che hanno altri interessi.

C’è qualcosa che non va, ed è qualcosa di grave… perché la conseguenza è la vita di un popolo. È il sangue che riempie le nostre strade, i nostri occhi, il nostro cuore.

Ma ormai, a cosa servono ancora le parole? Una nazione distrutta, generazioni di giovani sterminate, bambini che crescono con le armi in mano, donne rimaste sole, spesso oggetto di vari tipi di violenza… distrutte le famiglie, le tradizioni, le case, gli edifici religiosi, i monumenti che raccontano e conservano la storia e quindi le radici di un popolo…

Domani, dunque (o domenica ? bontà loro…) altro sangue.

Noi, come cristiani, possiamo almeno offrirlo alla misericordia di Dio, unirlo al sangue di Cristo che in tutti coloro che soffrono porta a compimento la redenzione del mondo. Cercano di uccidere la speranza, ma noi a questo dobbiamo resistere con tutte le nostre forze.

A chi ha un vero amore per la Siria (per l’uomo, per la verità…) chiediamo tanta preghiera… tanta, accorata, coraggiosa…    

le sorelle trappiste

da ‘Azeir – Syria, 29 agosto 13

 la cerniera di settembre 

 Inizia oggi il mese di settembre, l’ultimo mese estivo e il primo della stagione autunnale. E di questa situazione a metà ne cogliamo tutti gli aspetti nella vita di ogni giorno, sia guardando al clima che soffermandoci sul comportamento delle persone. Tutto in questo mese sembra in transito: tra sole, vento e pioggia l’estate cede lentamente il passo all’autunno, pur riservando per sé giornate splendide. Le città, sia esse grandi o piccole, come anche i paesi, tornano a pieno ritmo, con la vita di tutti i giorni che appare più lieta in questo mese perché si è potuto godere di un po’ di riposo estivo. Forse poco felici sono gli studenti e le studentesse che devono ritornare sui banchi di scuola, anche se sappiamo per certo che non tutti saranno mogi e più di qualcuno scalpiterà per iniziare una nuova avventura scolastica, che sia alla scuola elementare o media o superiore. Gli studenti universitari, si sa, studiano tutto l’anno (o almeno dovrebbero!). Alfonso Gatto (1909-1976) nella poesia Arietta settembrina si sofferma proprio sul nono mese dell’anno e su quell’aria particolare che vi si respira: la dolcezza dei venti sul mare, la campagna che piano piano si prepara ad addormentarsi, i tramonti che diventano splendidi in questa stagione, con il rosso e l’arancione che la fanno da padrone e tutto si addolcisce per passare dal vigore dell’estate piena al silenzio ovattato e meditabondo dei mesi autunnali, prima, e invernali, poi:

 Ritornerà sul mare / la dolcezza dei venti / a schiuder le acque chiare / nel verde delle correnti.

 S’addorme la campagna / di limoni e d’arena /  del canto che si lagna / monotono di pena.

 Così prossima al mondo / dei gracili segni, / tu riposi nel fondo / della dolcezza che spegni.

 per le donne violate, ALDA MERINI

Il mio primo trafugamento di madre
avvenne in una notte d’estate
quando un pazzo mi prese 

e mi adagiò sopra l’erba

e mi fece concepire un figlio.
O mai la luna gridò così tanto
contro le stelle offese,
e mai gridarono tanto i miei visceri,
né il Signore volse mai il capo all’indietro
come in quell’istante preciso
vedendo la mia verginità di madre
offesa dentro a un ludibrio.
Il mio primo trafugamento di donna
avvenne in un angolo oscuro
sotto il calore impetuoso del sesso,
ma nacque una bimba gentile
con un sorriso dolcissimo
e tutto fu perdonato.
Ma io non perdonerò mai
e quel bimbo mi fu tolto dal grembo
e affidato a mani più “sante”,
ma fui io ad essere oltraggiata,
io che salii sopra i cieli
per avere concepito una genesi.

lo sguardo lungo del cielo d’estate 

Rispondere alla pancia della gente. Tutto arriva a destinazione solo se tiene conto delle ragioni della pancia: non quelle della mente o del cuore. La vita fasulla che la tv trasmette come reale; o le stesse intercettazioni telefoniche sulle trivialità private e le frequentazioni improprie di cedri finti-Libano che si schiantano; ma lo stesso linguaggio delle omelie è invitato ad andare alla scuola di ciò che la pancia della gente oggi può recepire: quel quid radical che  fa dell’individualismo la norma, e del tecnicamente possibile una laicità. Un assoluto presente senza passato: dunque senza incertezze. Lo sentite l’abominio di quell’assolutamente che sostituisce il sì o il no sulla bocca di troppi? Un assoluto che non afferma o nega di più; ma solo esclude i frammenti possibili del prima e del dopo di ogni sì e di ogni no: il dubbio di chi va, il timore trattenuto di chi andando cerca, di chi mette il futuro nel proprio presente.  Ma chi vorrebbe morire di mal di pancia? Una buona cura è l’estate. Un paesaggio, un infinito racchiuso, segnato ma solo in minima parte dalle opere degli uomini. Spazio ampio, apparentemente deserto. C’è una profondità di cielo che specchia la vastità della terra che chiede di essere attraversata. È un’immagine (forse la migliore) di come può essere l’estate: un tempo sospeso che si popola di ciò che appartiene alla storia vissuta. Spazio della memoria di ciò che è stato, di ciò che la vita ha consegnato a ciascuno. Ma è memoria che vive, che ci sopravvive, solo se è consegnata. E si consegna se si comunica, se esce da sé. Uno spazio privilegiato, quello dell’estate: ferma il rumore del produrre, dell’affannarsi, e fa risalire il corposo silenzio di ciò che è stato, in noi e prima di noi. Non c’è più memoria del mondo contadino da cui tutti veniamo, seppur in distanze e frequentazioni diversificate: dei suoi riti e dei suoi ritrovi, di nonni che si raccontano attorno al focolare, dei bisogni che alimentano speranze, di trebbiatrici sull’aia, di leggende che descrivono verità, e di storie che accendono la fantasia. Prima è sparita la neve nei recenti inverni fatti di canne fumarie sempre accese, poi è sparita la nebbia, con quello smarrirsi impaurito – e quel sospiro di sollievo a una voce che richiama e conduce – che Amarcord descrive così acutamente. Ed è rimasto il freddo di una stagione senza connotazioni. Potrebbe sparire quel poco d’estate rimasto, se per guadagnare la frescura artificiale dei centri commerciali, si lascia fuori ancora una volta il meglio: la nettezza dell’ombra che ti fa costeggiare le strade, e l’incessante orchestra di cicale che fluttua da pianta a pianta ad alleggerire i pensieri. Se nella ordinarietà della vita i cristiani si muovono e agiscono senza esibirsi, tuttavia ci sono momenti in cui è doveroso testimoniare ciò in cui si crede: ma si può testimoniare ciò che non si vive, o ciò che non si conosce? È il dramma del cristianesimo che oggi sta sfocando perché non lo si sa raccontare. Ma credo che, prima ancora e per noi, sia il dramma dell’uomo contemporaneo che non tiene caldi in sé i propri ricordi, e dunque non sa passare le sue memorie mentre va. Se non si apprende – non nozioni, ma vita; e persone, e le loro tristezze e le risate liberanti – come si può imparare a vivere? Ma potrebbe soprattutto sprecarsi la preziosità che l’estate è: fuori dal dover fare, il tempo dilatato conduce dentro il piacere di raccontarsi, e così di tramandarsi di generazione in generazione. È il passato che innesca l’oggi: e nel fare comunione sull’oggi si compone un progetto di futuro. Non sembri eccessivo o fuorviante, ma il processo è lo stesso che s’avvera nelle celebrazioni dei cristiani: facendo memoria si compone una presenza reale, del Cristo con noi nella messa, di noi tra noi là fuori, sotto un cielo tutto da abitare.         di att. bianchi, 2010

santiago, di ritorno

Ci rechiamo di buonora, nel buio degli sgoccioli della notte verso l’aeroporto, con ancora nella mente le forti emozioni vissute, sempre a portata di mano per quei momenti in cui hai bisogno di un po’ di conforto per affrontare la tua quotidianità spesso impregnata di situazioni dove il rispetto e l’aspetto umano vengono soppiantati da avidità ed arroganza senza confini.
Mentre viaggiavamo verso casa, parlando del più e del meno, ad un certo punto Bruno cambia espressione, e trapela evidentemente una particolare emozione, come quando si sente il bisogno di svuotare il sacco e… di botto… ci battezza appioppandoci un nuovo attributo: Pier si ritrova col nomignolo “Pà di müt” mentre il sottoscritto con quello di “Ul müt”. Da lì in poi Bruno buttò fuori tutta la sua fatica vissuta in quelle, per lui, interminabili ore di silenzio che lo assillavano durante il pellegrinaggio. E’ evidente che le parole del curato, che il Signore e la pace siano con voi, per Bruno non avevano avuto molto effetto, ma penso che comunque gli abbiano lasciato uno spunto su cui riflettere, magari in altri pellegrinaggi. Spesso non sappiamo dare il giusto peso e significato alle parole che ascoltiamo troppo superficialmente.
Magari Bruno, ha puntato più sulla relazione con me e Pier, che non sul “Signore e la pace”!  

    

 nel giorno dell’Assunta in Cielo

     Avevo imboccato quella strada senza nessuna ragione plausibile. La meta non era contemplata dal mio fittissimo programma di viaggio. Il sole picchiava martellate tremende. Ero stanco, quasi stralunato, dopo migliaia di chilometri percorsi attraverso gli itinerari più suggestivi della Spagna e una ubriacatura incredibile di musei cattedrali corride palazzi sangrìa folklore villaggi paella El Greco Goya e città sgrondanti storia da tutti gli angoli.

 Mentre la macchina aggrediva tonfando gli ultimi tornanti, mi domandavo ancora perché avevo sterzato d’istinto all’apparire del cartello «Montserrat». Sapevo soltanto che si trattava di un celebre santuario della Catalogna circondato da montagne caratterizzate da una stranissima forma conica. La chiesa era zeppa di pellegrini. Mi sono fatto largo, a forza di gomiti, fino al limite del presbitero, giusto in tempo per vedere sfilare i monaci e i ninos della antichissima Escolanìa che andavano a prendere posto sotto l’immagine della Vergine, chiamata affettuosamente « Moreneta ».

 Una melodia che sembrava arrivare da un altro mondo e che ti portava dentro un messaggio sconvolgente. Accanto a me, un omaccione irsuto piangeva senza ritegno. Pensavo a ciò che mi aveva detto tante volte un carissimo amico, il romanziere Luigi Santucci: «Basta una goccia di musica per far uscire l’uomo dalla bestia». E lo stesso mi assicurava che, per lui, il canto dei bambini accompagnato dall’organo rappresentava la prova decisiva dell’esistenza di Dio.

 L’ultimo rintocco del mezzogiorno venne coperto dalla prima nota della «Salve Regina», in gregoriano. Ma, per me, in quel momento, non era soltanto la musica. Il canto della «Salve Regina» aveva allacciato il mio sguardo all’immagine della «Moreneta», austera e dolcissima.                                     di A. Pronzato 

 

«Ci dimentichiamo di essere

                      dei vasi di argilla quando tutto va bene, quando viviamo nella gioia e
nell’entusiasmo e anche quando approfittiamo della fragilità degli
altri. Ce ne ricordiamo quando la fragilità ci colpisce, come le malattie del corpo o quelle che non si misurano con le analisi mediche, cioè le instabilità personali,
le fragilità nelle nostre relazioni, nelle famiglie e nei patrimoni. C’è anche il
rischio che siamo consapevoli delle nostre fragilità, ma dimenticandoci
che abbiamo il tesoro nel vaso di
creta, cioè la Persona di Gesù Cristo, con la sua grazia, perdono e
misericordia. Come equilibrare
questi due opposti? Possiamo
farlo coltivando la virtù dell’umiltà. Qui appare luminosa la figura di Santa Chiara,che dell’umiltà e della povertà ha fatto una scelta radicale».                                  

Francesco Beschi, vescovo 

Maria, donna innamorata 

del  vescovo Tonino Bello, da Maria, donna dei nostri giorni

I love you. Je t’aime. Te quiero. Ich liebe Dich. Ti voglio bene, insomma.
Io non so se ai tempi di Maria si adoperassero gli stessi messaggi d’amore, teneri come giaculatorie e rapidi come graffiti, che le ragazze di oggi incidono furtivamente sul libro di storia o sugli zaini colorati dei loro compagni di scuola.
Penso, però, che, se non proprio con la penna a sfera sui jeans, o con i gessetti sui muri, le adolescenti di Palestina si comportassero come le loro coetanee di oggi. 

Con «stilo di scriba veloce» su una corteccia di sicomòro, o con la punta del vincastro sulle sabbie dei pascoli, un codice dovevano pure averlo per trasmettere ad altri quel sentimento, antico e sempre nuovo, che scuote l’anima di ogni essere umano quando si apre al mistero della vita: ti voglio bene!
Anche Maria ha sperimentato quella stagione splendida dell’esistenza, fatta di stupori e di lacrime, di trasalimenti e di dubbi, di tenerezza e di trepidazione, in cui, come in una coppa di cristallo, sembrano distillarsi tutti i profumi dell’universo.
Ha assaporato pure lei la gioia degli incontri, l’attesa delle feste, gli slanci dell’amicizia, l’ebbrezza della danza, le innocenti lusinghe per un complimento, la felicità per un abito nuovo.
Cresceva come un’ anfora sotto le mani del vasaio, e tutti si interrogavano sul mistero di quella trasparenza senza scorie e di quella freschezza senza ombre. 

Una sera, un ragazzo di nome Giuseppe prese il coraggio a due mani e le dichiarò: «Maria, ti amo». Lei gli rispose, veloce come un brivido: «Anch’io». E nell’iride degli occhi le sfavillarono, riflesse, tutte le stelle del firmamento.
Le compagne, che sui prati sfogliavano con lei i petali di verbena, non riuscivano a spiegarsi come facesse a comporre i suoi rapimenti in Dio e la sua passione per una creatura. Il sabato la vedevano assorta nell’esperienza sovrumana dell’estasi, quando, nei cori della sinagoga, cantava: «O Dio, tu sei il mio Dio, dall’aurora ti cerco: di te ha sete l’anima mia come terra deserta, arida, senz’ acqua». Poi la sera rimanevano stupite quando, raccontandosi a vicenda le loro pene d’amore sotto il plenilunio, la sentivano parlare del suo fidanzato, con le cadenze del Cantico dei Cantici: «Il mio diletto è riconoscibile tra mille… I suoi occhi, come colombe su ruscelli di acqua… Il suo aspetto è come quello del Libano, magnifico tra i cedri…».
Per loro, questa composizione era un’impresa disperata. Per Maria, invece, era come mettere insieme i due emistichi d’un versetto dei salmi.
Per loro, l’amore umano che sperimentavano era come l’acqua di una cisterna: limpidissima, sì, ma con tanti detriti sul fondo. Bastava un nonnulla perché i fondigli si rimescolassero e le acque divenissero torbide. Per lei, no.
Non potevano mai capire, le ragazze di Nazaret, che l’amore di Maria non aveva fondigli, perché il suo era un pozzo senza fondo.
Santa Maria, donna innamorata, roveto inestinguibile di amore, noi dobbiamo chiederti perdono per aver fatto un torto alla tua umanità. Ti abbiamo ritenuta capace solo di fiamme che si alzano verso il cielo, ma poi, forse per paura di contaminarti con le cose della terra, ti abbiamo esclusa dall’esperienza delle piccole scintille di quaggiù. Tu, invece, rogo di carità per il Creatore, ci sei maestra anche di come si amano le creature. Aiutaci, perciò, a ricomporre le assurde dissociazioni con cui, in tema di amore, portiamo avanti contabilità separate: una per il cielo (troppo povera in verità), e l’altra per la terra (ricca di voci, ma anemica di contenuti) .
Facci capire che l’amore è sempre santo, perché le sue vampe partono dall’unico incendio di Dio. Ma facci comprendere anche che, con lo stesso fuoco, oltre che accendere lampade di gioia, abbiamo la triste possibilità di fare terra bruciata delle cose più belle della vita.
Perciò, Santa Maria, donna innamorata, se è vero, come canta la liturgia, che tu sei la «Madre del bell’amore», accoglici alla tua scuola. lnsegnaci ad amare. È un’arte difficile che si impara lentamente. Perché si tratta di liberare la brace, senza spegnerla, da tante stratificazioni di cenere.
Amare, voce del verbo morire, significa decentrarsi. Uscire da sé. Dare senza chiedere. Essere discreti al limite del silenzio. Soffrire per far cadere le squame dell’egoismo. Togliersi di mezzo quando si rischia di compromettere la pace di una casa. Desiderare la felicità dell’altro. Rispettare il suo destino. E scomparire, quando ci si accorge di turbare la sua missione.
Santa Maria, donna innamorata, visto che il Signore ti ha detto: «Sono in te tutte le mie sorgenti», facci percepire che è sempre l’amore la rete sotterranea di quelle lame improvvise di felicità, che in alcuni momenti della vita ti trapassano lo spirito, ti riconciliano con le cose e ti danno la gioia di esistere.
Solo tu puoi farci cogliere la santità che soggiace a quegli arcani trasalimenti dello spirito, quando il cuore sembra fermarsi o battere più forte, dinanzi al miracolo delle cose: i pastelli del tramonto, il profumo dell’oceano, la pioggia nel pineto, l’ultima neve di primavera, gli accordi di mille violini suonati dal vento, tutti i colori dell’arcobaleno… Vaporano allora, dal sotto suolo delle memorie, aneliti religiosi di pace, che si congiungono con attese di approdi futuri, e ti fanno sentire la presenza di Dio.
Aiutaci, perché, in quegli attimi veloci di innamoramento con l’universo, possiamo intuire che le salmodie notturne delle claustrali e i balletti delle danzatrici del Bolscjoi hanno la medesima sorgente di carità. E che la fonte ispiratrice della melodia che al mattino risuona in una cattedrale è la stessa del ritornello che si sente giungere la sera… da una rotonda sul mare: «Parlami d’amore, Mariù».

don Celso, anno duemila

 Raccontava a se stesso che era per il caldo: anche, ma non solo. La torrida estate l’aveva steso come non mai nei pur numerosi anni che ormai contava. Si era così ritirato in quel piccolo chiostro di piante incolte, e di alti arbusti che creavano un’oasi temperata appena fuori il vasto porticato sul retro della canonica. A leggere, libri e vecchie riviste accantonate per un anno, e il quotidiano fresco di mattina.

 E sulla pila dei giornali ammucchiati sul vecchio canterano di famiglia, aveva tenuto in vista quella notizia per troppi giorni per non volersene far disturbare, e provocare a pensieri rosminiani da cinque piaghe. “Per favore, non chiamatemi eccellenza”, così occhieggiava il titolo su tre quarti di pagina. E diceva del nuovo arcivescovo, descritto come un frate che porta sandali, deciso ad abitare in un rione popolare, mandato a salvare la Chiesa di Boston. I maligni sussurrano che è modesto solo a metà, che è un po’ troppo affettato, uso alle telecamere. Ma c’è anche chi lo conosce come un uomo dal cuore grande e vero. Speriamo, si dice don Celso, che non capiti mai a Roma dalle parti del Senato, dove ci stanno boutiques ecclesiastiche: lui, giusto qualche mese fa nella capitale per la predicazione di esercizi spirituali a una parrocchia sulla Nomentana, si era scandalizzato, prete com’è di provincia.

 Una volta nella vita aveva orecchiato un complimento che era bastato a tutta la sua vanità. Stavano dicendo di lui che non era “pomposo”. Dalle sue parti si traduce: uno che non si dà delle arie, schivo di riconoscimenti; in termini correnti: che non se la tira. Ma per lui non era virtù. Gli era connaturato il rifiuto del superfluo: certo un po’ esagerando – se lo rimproverava ma senza correggersi – non aveva mai voluto celebrazioni per i suoi anniversari di messa, e neppure mai aveva indetto inaugurazioni di sorta. Riteneva fuori tempo ogni titolo che non fosse vescovo, presbitero e diacono; e ogni paramento che fosse un tradimento del grembiale liturgico.

 Compativa senza proprio capire chi ci teneva, e anche questo si rimproverava ma senza correggersi. Come fa un vescovo a distinguere tra un prete e un altro? La mansione di un parroco di montagna è meno ragguardevole del notabile di Curia? E la distinzione tra primo e secondo e terzo grado di onorificenza, con filatteri diversi, che storia è? Che immagine si dà della Chiesa umile e distaccata? Che senso ha, e per la fede di chi? Aveva sperato che per il Giubileo si chiedesse ai già insigniti di deporre le vesti dell’inutilità, e l’aveva anche scritto al suo vescovo. Il settimanale diocesano, qualche mese dopo, avrebbe annunciato i “nuovi monsignori del Giubileo”.

 Se uno è considerato un santo, non lo si fa monsignore: era una regola non scritta della sua diocesi, che pure continuava a fabbricare onorificenze. Forse il vescovo, con traccia arguta, indicava palesemente chi non era santo?

 Pensieri da calura, di cui si sarebbe confessato. Ma alla fine dell’estate.  (di a. bianchi)

 

il potere del sorriso, di Concita De Gregorio

Gesti semplici. Qualcosa che somiglia a quel che accade a ciascuno di noi, quando accade. Il Papa che sale le scale dell’aereo portando la sua valigia, il futuro re d’Inghilterra che carica il piccolo principe in macchina nel seggiolino. Come tutti, e nonostante una condizione che permetterebbe di evitarlo, volendo: perché se sei abituato così – a portare la tua valigia, a prenderti cura delle persone che ami – fai così anche se sei il Papa, il prossimo re. Milioni di persone esasperate dalla quotidiana esibizione di tronfia protervia di chi concepisce il potere come personale privilegio e capriccio, restano quasi senza accorgersene incantate dal dettaglio. (…) A far diverso questo evento di globale distrazione estiva è lo stile. Quel che resta – della foto di lui in maniche di camicia, reduce dalla sala parto, e di lei con il vestito che tira sul petto – sono gli sguardi, i sorrisi, i gesti fuori controllo che somigliano ai nostri. Due minuti di ricreazione per il mondo intero, perché tutti hanno visto in un secondo la differenza che corre fra chi fa finta, si approfitta, si apparecchia diverso a suon di strafottenza e chi si carica il peso e la gioia di un viaggio nel suo stesso futuro portandolo a mano. Poi loro restano papi e re, certo. Ma che sia l’amore a fare la differenza in ogni cosa, anche in quelle in cui l’amore sembra che non c’entri, questo l’hanno visto tutti, in quel secondo. E pazienza per chi non lo sa e deride gli ingenui. Non sanno cosa si perdono, cosa si sono persi già. Non sanno da dove chiunque vorrebbe che la storia ripartisse. Facciamo da soli, grazie. Sorriso.

Quell’istante in cui i fiori scoppiano, di Aristea Canini 

 Quell’istante dove il sole diventa rosso e sembra pronto a ingoiarmi l’anima. Quell’istante dove incontro i tuoi occhi e ci vedo dentro l’anima. Quell’istante dove sento il profumo di pane fresco e rallento il cammino per farlo diventare benzina delle mie gambe e solletico delle mie voglie. Quell’istante dove vedo sbattere una nuvola contro l’infinito e sparire dietro l’orizzonte senza farmi male. Quell’istante dove le tue parole hanno un effetto diverso perché mi stai dando il tuo amore e quel secondo basta per farmi star bene per tutto il giorno. Quell’istante dove Dio non diventa uno da farsi pregare ma qualcuno da ringraziare. Quell’istante dove le parole di quelli che ascolto in tv spariscono e lasciano posto ai miei sogni e diventa tutto più chiaro. Quell’istante dove l’alba mi disegna l’avvenire e mi ci butta dentro. Quell’istante col tuo sorriso in faccia che mi regala il mondo. Quell’istante stamattina quando non avevo voglia di cominciare a scrivere e mi hai telefonato e mi hai buttato addosso la vita e ho accelerato per arrivare qui in redazione e mettere assieme parole per provare a regalare istanti ad altri. Quell’istante dove i fiori scoppiano pieni di petali e decidono di prendersi il mondo. Quell’istante dove cancello le parole di tutti quelli che incontro che parlano solo del meteo e dell’acqua che non deve esserci a maggio ma chi se ne frega, maggio e giugno non si sprecano nemmeno con la rugiada del cielo. Quell’istante dove mi infilo in strada deserte e divento padrona del mio vuoto. Quell’istante dove il fischio finale del campionato decide che abbiamo preso cinque gol anche oggi ma la fine all’improvviso diventa un nuovo inizio e ritorno a sorridere. Quell’istante dove Grillo non urla, il PD e PDL non si mettono più la lingua in bocca, la Lega non morde più, quell’istante che basta per darmi la voglia di rimettere i piedi sull’asfalto e rimettermi a correre verso altri istanti, verso altri attimi da far diventare eterni.

 

Favola estiva del 2012: un po’ riveduta e corretta, continua nel 2013

Gli italiani si godono la dolce vita, mentre il resto dell’Europa si affanna per ripagare i propri debiti? Sciocchezze! Gli italiani sono alle prese con la crisi e i pregiudizi, che il resto dell’Europa fomenta ad arte. Ma ora basta con i luoghi comuni. Un uomo è seduto alla finestra, sente il profumo del mare ma non lo vede. La sua casa, di quattro piani, sottile come un fazzoletto, è disposta in seconda file rispetto al lungomare di Meta di Sorrento, nel Golfo di Napoli. Qualche nave passa lì di fronte e saluta con il solito suono di sirena, inchinandosi a lui, com’è tradizione nel suo ambiente, e come anche lui ha fatto in quella fatale notte invernale. Adesso è seduto dietro le imposte chiuse, che il sole tramontando nel mare di Capri tinge ogni sera di rosso sangue; quasi non osa farsi vedere in giro, a volte si fa solo un giretto in motoscafo nei dintorni. Nessuna compassione per Francesco Schettino, il Capitano Dilettante, che la gelida notte del 13 gennaio ha fatto naufragare sugli scogli la nave da crociera “Costa Concordia” e che deve convivere con la colpa di aver causato la morte di 32 passeggeri. Anche a Meta, paese natale di Schettino posto tra il Vesuvio e Capri, nessuno prova compassione, anche se spesso è stato detto così. Nessuno dei suoi concittadini giustifica la sua viltà e le sue scuse, neanche i comandanti in pensione del Circolo Nautico in piazza, nemmeno il parroco nella Chiesa dei Naviganti di Meta. Solo una persona crede ad un complotto organizzato contro Schettino. Qualcuno ce lo ha messo lui lo scoglio lì in mezzo al mare, dice quest’uomo. Ma poi lui stesso si mette a ridere. E’ un amico d’infanzia, dice, una volta gli venne un crampo mentre nuotava in mare, Schettino era in canoa lì intorno e lo riportò a nuoto a riva salvandolo. Gli amici d’infanzia devono dirle queste cose, soprattutto se gli è stata salvata la vita.

 Dalla mia visita a Meta ho imparato due cose.

Primo: l’Italia è un pò come Francesco Schettino, che a mala pena esce di casa. Attualmente è la prigione più bella d’Europa. In questa estate, la seconda in tempo di crisi, molti italiani si sentono come in gabbia e isolati, abbandonati dal nord, ridicolizzati. Tuttavia: della crisi si parla ormai da anni, da quando sono venuta qui per studio 20 anni fa. E: gli italiani sanno di essere loro stessi responsabili della crisi. Sono già pronti per un risanamento generale della loro società con tutti i loro mali e malattie, si stanno dando da fare e ci stanno riuscendo. Secondo: pregiudizi e realtà devono essere accuratamente tenuti distinti. Gli italiani hanno perfettamente ragione ad essere irritati per l’immagine stereotipata, che il mondo dà di loro. Lo spendaccione, lo scroccone, l’ozioso frequentatore dei Club Med, gentaglia fallita del sud. E ancora: un capitano irresponsabile, che abbandona la nave mentre sta affondando, dando stupidamente la colpa al ponte scivoloso, a causa del quale sarebbe caduto finendo nella scialuppa di salvataggio. E’ questa più o meno l’immagine di tutta l’Italia? Queste immagini sono seducenti ma nonostante ciò errate: l’italia non è ancora KO. L’Italia non sarà ridotta in pezzi e rottamata come sta facendo ora una ditta americana con il relitto della nave al largo dell’isola del Giglio. L’Italia è viva, partecipa finanziariamente ai pacchetti di salvataggio come terza potenza economica nell’eurozona, e può darsi che proprio la crisi abbia riportato in vita l’Italia, “viva la crisi”, anche se può sembrare assurdo. Quindi estate sul Mediterraneo. Un’estate all’italiana con un incredibile debito di 1.9 mila milioni di euro, un livello di disoccupazione giovanile al sud che supera il 50% e un pericolo di infezione, che può partire dalla Grecia sull’orlo del fallimento e dalle banche spagnole. Ma gli italiani non restano in spiaggia a sonnecchiare, gli italiani meditano sui propri compiti…

  L’anti-politica fa bene agli italiani

Quando mi sono trasferita a Roma due anni fa, sono rimasta sbalordita da questa rumorosa spacconeria. Non avevo nulla contro la decadenza tardo romana o la sensualità dei cattolici – anche perché ho scelto io di venire a Roma. Quello che tuttavia ho trovato era un paese paralizzato, aggressivo e provinciale. Il paese dei miei sogni di un tempo non esisteva più. Nuotavo contro corrente. Mentre giovani laureati romani se ne andavano a Berlino, alla ricerca di un futuro, io lasciavo Berlino per trovarmi in una città, che si aggrappa al suo passato, senza essere arrivata al presente. Ma poi è iniziato un piccolo miracolo, la vecchia politica è stata mandata in ferie d’ufficio, sono comparsi senza essere eletti i tecnici, all’ultimo minuto. L’anti-politica fa bene agli italiani, il miracolo continua, è diventato un bel sogno estivo. Se Monti potesse, anche lui andrebbe in spiaggia a discutere dello spread con gli italiani, ma non non può, lavorerà tutta l’estate e se lo aspetta anche dai 630 parlamentari. Naturalmente ci sono sempre italiani in ferie al mare, solo che sono diventati consapevoli della crisi. In questo secondo anno di crisi con una meticolosità mai avvertita finora coloro che praticano lo sci nautico a grande velocità si tengono distanti dalle coste, si arriva a Rimini o ad Ostia in maniera ordinata e viene rilasciato lo scontrino per ogni acquisto, per gli ombrelloni, il gelato, lo spritz al bar. “Vacanze etiche”: questa è la nuova tendenza per le vacanze estive. Anche quest’anno i vicini europei fanno gruppo comune. Ci si muove tutti insieme, uniti come i passeggeri di tutto il mondo e i soccorritori italiani della “Costa Concordia”. Certo, non sono i viaggiatori colti dei grandi viaggi quelli che arrostiscono sulle spiagge italiane. Non ci sono Goethe, Winkelmann o Lord Byron – anzi: anche i turisti cercano l’ispirazione, sole, aria e stile di vita. Vogliono immergersi nella bellezza e nella Dolce Vita a completamento della loro efficienza.

  Il cittadino medio italiano è a dieta e sopporta con coraggio

Non tutti i tedeschi riescono a lasciare in valigia la loro germanicità. Un ristoratore della Sardegna racconta di una coppia, che recentemente voleva liberare i pesci dall’acquario del ristorante. L’uomo ha trovato l’azione di salvataggio alquanto strana. Coerenza tedesca contro la adattabilità italiana, si è fatto convincere, ha venduto ai tedeschi, per 500 euro, naturalmente con scontrino, due aragoste che i due hanno liberato in mare. Gli italiani fanno i compiti, e per questo vogliono essere rispettati e lodati dai vicini e dai mercati. E se lo sono guadagnato. Poiché gli italiani non vivono a scrocco e non si fanno mantenere dal ricco nord, questo è un altro pregiudizio. Il pinco pallino, il cittadino italiano medio, è a dieta e sopporta coraggiosamente, e non lo grida in piazza e blocca tutto, come i suoi vicini di sventura di Atene, anche questo è un miracolo. Sotto l’ombrellone e con l’insalata di pasta la Germania torna ad esser nuovamente argomento di discussione. Perché ci disprezzate, la Merkel è davvero così severa quando deve cedere? Queste sono le domande. L’Italia è come la Grecia? Gli italiani sono i nuovi spagnoli? Che arroganza, che luoghi comuni. Solo se restiamo uniti siamo europei. Senza gli stati del sud l’Europa è insignificante, fallita, i tedeschi lo dimenticano volentieri. Anche la crisi è una opportunità per imparare dal sud. Eppure la favola estiva continua in Italia…  [Articolo originale “Es lebe die Krise” di Fiona Ehlers, 2012]

 

Estate con papa Giovanni

Un nonno e un nipote, giornalisti e scrittori, hanno dato alla stampe per San Paolo, una bella biografia di papa Giovanni.  Essa racchiude, in poco più di centocinquanta pagine, quel tesoro si spiritualità, umanità e fedeltà a Dio che e’ stata la parabola umana di Roncalli, beato e prossimo alla canonizzazione prima della fine del 2013. Cinquant’anni fa Giovanni XXIII si spegneva nella pace di Dio e a distanza di tanti anni, la sua figura emerge ancora non solo nella devozione popolare ma come luce per comprendere il messaggio cristiano. La semplicità e la profondità del sacerdote bergamasco sono delineate attraverso i gesti, i pensieri, le preghiere e le azioni dell’autore del “Giornale dell’anima”: la sua famiglia, la formazione ed educazione nell’ambiente di fine Ottocento e poi la scelta vocazionale: il farsi prete per Dio e per gli uomini.  Don Angelo Roncalli non era un ingenuo e neppure solo un uomo coraggioso, sapeva affrontare le sfide anche difficili per un uomo che ha attraversato, nella sua esistenza, le tragedie del Novecento: dalle guerre mondiali alla nascita e l’affermazione dei totalitarismi.  Tutti i passaggi fondamentali della sua vita sono descritti dagli autori, in modo semplice, un modo bello e concreto per fare avvicinare le generazioni di oggi, che di don Roncalli divenuto Giovanni XXIII hanno sentito parlare i nonni, oppure hanno letto qualche scarna nota sui manuali scolastici di storia.  Leggendo il volume degli Agasso il lettore si immerge invece in una vita bella, di una persona che nelle mille difficoltà della  vita si e’ affidata a Dio, a Gesù’ come bussola per orientarsi sulle strade del mondo. Gli autori parlano dei complessi passaggi della  Sua vita, e lo fanno in modo chiaro, completo e comprensibile. Una  ulteriore prova di capacità divulgativa e di profondità di messaggio.          Agasso, Papa Giovanni XXIII, San Paolo, pp. 151 euro 9,90 

 

 Ricchi e poveri d’estate di Alberto Moravia  

Col caldo anche i caratteri si scaldano: ma per il ricco è un’altra cosa…
Con l’estate, forse perché sono ancora giovane e non mi sono ancora adattato al fatto d’essere marito e padre di famiglia, mi viene sempre  la voglia di fuggire.
 D’estate, nelle case dei ricchi, si chiudono le finestre alla mattina e l’aria fresca della notte rimane nelle stanze ampie e oscure, dove,  nella penombra, brillano specchi, pavimenti di marmo,  mobili lucidati a cera.
Tutto è a posto, tutto è pulito, ordinato, nitido; perfino il silenzio è un silenzio fresco, riposante, buio.
Se poi hai sete, ti portano su un vassoio una bella bibita gelata, un’aranciata, una limonata, in un bicchiere di cristallo in cui i blocchetti di ghiaccio, a rimescolarli, fanno un rumore allegro che da solo ti rinfresca.
Ma nelle case dei poveri le cose vanno diversamente. Col primo giorno di caldo, l’afa entra nelle d
ue stanzette affogate e non se ne va più via. Vuoi bere ma dal rubinetto, in cucina, viene giù un’acqua calda che pare brodo. In casa non ti puoi più muovere: sembra che ogni cosa, mobili, vestiti, utensili, si sia gonfiata e ti caschi addosso.

Tutti stanno in maniche di camicia, ma le camicie sono sudate e puzzano. Se chiudi le finestre, soffochi perché l’aria della notte non ce l’ha fatta ad entrare in quelle due o tre stanze dove dormono sei persone; se le apri, il sole t’inonda e ti pare d’essere in strada e tutto sa di metallo bollente, di sudore e di polvere.
Col caldo, anche i caratteri si scaldano, voglio dire diventano litigiosi: ma il ricco, se gli gira, prende e se ne va in fondo all’appartamento, tre stanze più in là; i poveri, invece, rimangono davanti ai piatti unti e ai bicchieri sporchi, naso a naso; oppure debbono andar via di casa. L’inverno e l’estate sono evidentemente due stagioni… classiste, tanto netta è la distinzione che esse fanno fra ricchi e poveri, fra le case ben protette e riscaldate dei primi nella stagione fredda (che sono anche le più arieggiate e ombreggiate sotto la sferza del solleone) e le umili dimore degli altri, che a volte sono semplici baracche, o piccole e vecchie stanzucce senza sole dove dominano i gelidi spifferi dei venti invernali e nelle quali d’estate regnano l’afa e l’aria stagnante, maleodorante, come accade 
nei locali sovraffollati.

 

 

Temporale       di Nancy Peterson 

L’aria, calda per tutto il giorno, opprime gli alberi, piega le corolle dei fiori, grava sulle mie spalle.
Mi avvicino alla finestra con un senso di disagio.
Ecco, lì a occidente, la spiegazione.
Strati su strati di nuvoloni giganteschi si addensano, si gonfiano, s’impennano nel cielo azzurro creando figure fantastiche.
Ben  presto le nuvole coprono il sole del tardo pomeriggio, e la giornata si oscura anzitempo.
Una raffica di vento frusta la polvere lungo la strada.
Una porta sbatte, le tendine si gonfiano e ondeggiano.
Corro a chiudere le finestre, a ritirare la biancheria stesa.
Smorzato dalla distanza, mi giunge il cupo brontolio del tuono.
Le prime gocce di pioggia sono spropositate; si spiaccicano nella polvere, rigano le finestre, tambureggiano rade sulla tettoia del patio.
Poi più veloci, come un rullo di tamburo in crescendo, le singole gocce diventano un  
esercito in marcia sulla campagna e sui tetti.

Qualche attimo dopo il cielo sembra spaccarsi, e io sussulto di paura.
Non più appostato in lontananza, il tuono fa tremare i vetri e manda il cane a nascondersi sotto il letto. Lo scoppio successivo è ancora più vicino e io faccio un involontario passo indietro.
So che non dovrei stare vicino alla finestra per ragioni di sicurezza, ma non so rinunciare allo spettacolo.
La pioggia diventa un torrente agitato a capriccio da un vento sempre più forte.
Insieme, pioggia e vento martellano gli alberi e piegano l’erba.
Dai tetti e dalle grondaie scende acqua furiosa, e il rovescio contro le finestre così fitto e 
continuo che non riesco a vedere nulla.

Nello scrosciare uniforme si inserisce ora il rumore della grandine sul tetto.
Chicchi bianchi rimbalzano contro l’erba e bucherellano le pozzanghere.
Ma ormai il temporale ha perso lena.
La tensione presente nell’atmosfera si è scaricata.
Le cortine di pioggia lasciano filtrare più luce, e il tuono brontola per l’ultima volta. …
Mi vien voglia di uscire mentre ancora piove.
Una nebbiolina di gocce polverizzate mi bagna nonostante il riparo della tettoia, ma è fresca e gradita. Respiro a fondo e guardo il sole che si riaffaccia negli squarci tra le nuvole.
Un raggio colpisce le goccioli ne formatesi sull’orlo del tetto, che diventano ciascuna un piccolo
spettro di colori, la mia schiera privata di arcobaleni.
Tutto intorno a me sembra rinato, e anch’io mi sento così.
Provo un senso di pace infinita.

 il dilemma del porcospino, di A. Schopenhauer__________ «Alcuni porcospini, in una fredda giornata d’inverno, si strinsero vicini, vicini, per proteggersi, col calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto, però, sentirono le spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l’uno dall’altro. Quando poi il bisogno di riscaldarsi li portò nuovamente a stare insieme, si ripeté quell’altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro fra due mali, finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione. Così il bisogno di società, che scaturisce dal vuoto e dalla monotonia della propria interiorità, spinge gli uomini l’uno verso l’altro; le loro molteplici repellenti qualità e i loro difetti insopportabili, però, li respingono di nuovo l’uno lontano dall’altro. La distanza media, che essi riescono finalmente a trovare e grazie alla quale è possibile una coesistenza, si trova nella cortesia e nelle buone maniere.  A colui che non mantiene quella distanza, si dice in Inghilterra: keep your distance! ? Con essa il bisogno del calore reciproco è soddisfatto in modo incompleto, in compenso però non si soffre delle spine altrui. ? Colui, però, che possiede molto calore interno preferisce rinunciare alla società, per non dare né ricevere sensazioni sgradevoli». Se due persone iniziassero a prendersi cura e a fidarsi l’uno dell’altro, qualsiasi cosa spiacevole che accadesse ad uno di loro ferirebbe anche l’altro. Che cosa scegliere? 


 

La vera storia di sant’Attilio da Collosa
di Ilaria Vajngerl Padre Attilio morì muto. Mi piacerebbe almeno salutare, questo fu il suo ultimo pensiero. Ma aveva fatto un voto, spirò in silenzio.

Se avesse custodito la premonizione che Dio gli aveva mandato in sonno, Nostrossiggnore-gesùcristo non l’avrebbe fatta avverare. E sarebbe stato un bene, un sacrificio compiuto per VoiTutti. Così don Attilio smise di parlare.
Perché, anche se Collosa era una città di peccatori, vergognatevi, perché sono tutte balle quelle che vi raccontano, l’inferno esiste davvero e i diavoli, a voi, pungeranno il culo!, lui avrebbe salvato il suo amatissimo gregge dal buio di un destino incerto, così parlò quell’ultima volta.
Poi scrutò i fedeli e si portò agli occhi  le dita indice e medio della mano destra aperte a V, V di VI VEDO, che puntò subito dopo verso la folla sbiadita.
Nei giorni che seguirono il suo funerale non erano piovute cavallette e i primogeniti continuavano ad essere picchiati dai fratelli più piccoli, ma più grossi, segno che l’alleanza fra Dio e il sacerdote era andata a buon fine.
Un secolo dopo, Sua Santità Papa Angelico il Pio provvide personalmente alla canonizzazione del prete, così anche il suo più intimo desiderio, comparire sul calendario di Frate Indovino, poté essere  realizzato. 

Postumo, sì, ma realizzato. E diciamolo, Sant’Attilio da Collosa suona proprio bene.

 Se avesse mantenuto il primo nome, quello che portava quando era bambino, sul calendario non ci sarebbe finito. E nemmeno sarebbe diventato prete, questo è certo.Nella famiglia di don Attilio avere un nome che iniziasse con la A, portava bene, era tradizione. C’era Anna, sua madre, e Andrea, suo padre, poi venivano Adele,  Agnese, Alberto e Antonio. E in ultima, c’era lui, Attilio. 

Attila.

Padre Attila, bé sarebbe stato originale, davvero, Padre Attila flagello di Dio.
Eh, no, no non si può fare proprio carissimo, questo è certo. Trovi qualcosa di più consono, ecco, così gli dissero. E  Attila fu ribattezzato Attilio, Perilbenenostroetdituttalasuasantachiesa. Amen.

 Le orecchie di padre Attilio erano simili all’altoparlante di un grammofono. E funzionavano ancora meglio. Poteva ascoltare la voce del padreterno dall’orecchio sinistro. E Dio a don Attilio ci si era affezionato. Così 

  prima del sorgere del sole, Nostrosiggnoregesùcristo, che vi guarda tutti dall’alto, figli di Eva!, andava a mostrare al parroco la melma nascosta sotto Collosa.

Padre Attilio il bonificatore, si faceva chiamare.
Ti ho visto l’ altra notte, sai!?! Esordiva così, gli piaceva comparire alle spalle d’improvviso. Il peccatore sobbalzava, abbassava il capo impallidendo e infine si voltava tremante. Pensava che forse allora Dio esisteva davvero, l’aveva scoperto, e che, per favore Dio, fammi passare almeno questa,  andrò a messa tutte le domeniche. Lo giuro.
Don Attilio, bé, non sbagliava un colpo. Era anche meglio di uno che fa i miracoli.
Nessuno poteva immaginare che dietro i suoi prodigi ci stesse una zanzara.

La pianura di Collosa, una volta, era una palude marrone. Gli abitanti della città se ne ricordavano soltanto in estate, quando le zanzare cominciavano ad avere sempre più sete e gli abitanti  più prurito. Le ragazze si profumavano con la citronella, le zitelle mangiavano l’ aglio,  usando la puzza del sudore come repellente naturale.
Padre Attilio invece si lasciava pungere per fare penitenza e poi, mica poteva grattarsi. Eh no, infilava avemarie, padrenostri e chi più ne ha più ne metta.

 Fu in una notte di luglio che una zanzara canterina, una di quelle che prima di pizzicarti te lo sibila all’orecchio, rimase intrappolata nel condotto uditivo sinistro di padre Attilio, che nei suoi accarttocciamenti notturni era solito ficcare la testa sotto il cuscino.
Nell’orecchio del sacerdote si stava stretti, è vero, ma era un posto sicuro, umido al punto giusto.  La zanzara decise di rimanervi.

 L’indomani padre Attilio si svegliò sereno. Fece colazione, andò in bagno chiudendo dietro di se la porta a chiave. Solo per precauzione.
Da piccolo acchiappava i rospi più grossi e li gettava nel catino mentre Adele e Agnese si lavavano la schiena. Il più delle volte l’acqua della vasca era troppo calda, le rane morivano quasi subito, si gonfiavano e diventavano bianche. Agnese non diceva nulla, si rivestiva e andava ad aiutare sua madre in cucina. Adele vomitava. Padre Attilio si lavò denti, si fece la barba e si insaponò le ascelle.
Agnese se ne rimaneva tranquilla. E questo Attila proprio non sapeva spiegarselo. Poi un giorno, mentre se ne stava solo in ammollo, sua sorella era entrata di soppiatto con un mazzo di ortiche. Era arrivata da dietro, gli aveva infilato la testa sott’acqua, tenendolo stretto per i capelli. Quando l’ aveva sentito dibattersi aveva mollato la presa. Lui era subito scattato in piedi, aveva bisogno d’aria.  
Lei allora aveva iniziato a colpire. 
Agnese anche quella volta era rimasta in silenzio, aveva  gettato quel che rimaneva delle ortiche nel letamaio e se ne era  tornata in cucina ad aiutare sua madre.

 Padre Attilio cominciò a sentire la voce della zanzara nel confessionale. Inginocchiato c’era il notaio. Odio mia moglie. Non la sopporto. Nel mio studio ho messo un divano. È lì che sto finito di lavorare. Rientro per cena. E mia moglie mi sorride, è perfetta, come una volta. Io la odio ancora di più, mi fa sentire in colpa. Mi fa sentire vecchio.
Digli che sua moglie ha l’amante. L’ho vista.
Padre Attilio pensò di essersi sbagliato, in chiesa a quell’ora non c’era nessuno.
Digli che sua moglie ha l’amante.
Il sacerdote non voleva ascoltare, non capiva.

 Quando Attilio andò a pregare, Dioaiutamisatanahasceltome, la zanzara finalmente uscì dal  nascondiglio per presentarsi. Senti prete, mettiamoci d’accordo. Tu di giorno mi fai rimanere dentro il tuo orecchio, al sicuro. In cambio poi ti racconto quello che succede la notte, quando io vado a mangiare e tu dormi. Ci diamo il cambio, posso rendermi utile.

 Presto la moglie del notaio uccise suo marito. Lo trovarono in fondo alle scale con la testa fracassata. Pensarono ad un malore. Ma padre Attilio, no, lui sapeva che era stato ucciso con due colpi di fucile.
Ma cosa dice, qui non ci sono proiettili!
Padre Attilio condusse allora il commissario giù in cantina. Diceva, Dio mi guida, camminava con gli occhi sbarrati, a lui guardare mica serviva. 
Fermati prete. Lì dietro c’è qualcosa, sento l’odore. 
E così fu trovato l’ Hammerless a canne cromate col calcio sporco di sangue.
Il notaio era stato ucciso con due colpi di fucile, assestati precisi, dietro la nuca, come si fa con le trote. Sparare sarebbe stato rischioso. Meglio usare l’arma come una mazza.
Io te l’avevo detto, prete, di dirgli che si era fatta l’amante. Se ne sarebbe andato, sarebbe  stato più triste, ma almeno sarebbe vivo. E tu no. Guardalo, cosa dirà ora il tuo Dio?

 L’onnipotente si limitava a tacere, Dio ci aspetta. Padre Attilio no.
Mandava di ronda la zanzara. 
C’era il professore di greco che per arrotondare la sera si vestiva da donna e andava al porto. Sapeva di detersivo. C’erano le donne che leggevano di nascosto i diari delle figlie. C’erano le figlie che saltavano dalla finestra e andavano a farsi leggere la mano. Qualcuna piangeva. C’erano quelle che dormivano sole e sognavano di avere qualcuno accanto. C’erano le mogli che non riuscivano a prendere sonno perché il marito russava troppo forte. C’erano i vecchi dell’ospizio, che facevano l’amore tutti insieme, per non sentirsi soli, ché tanto non li badava nessuno. C’erano i sospiri di chi sta per morire, di quelli che guardano la notte dalla finestra, e le sorridono, perché non c’è più tempo per fare altrimenti. C’era chi si suicidava. 
C’era chi tagliava i capelli della sorella, più bella. Chi di notte si alzava per mangiare. C’erano le ninne nanne e le bestemmie. Anche quelle, sì, perché no.

 Don Attilio ogni giorno si dava da fare, era una missione la sua, ci credeva. Prete, se il tuo Dio mi ha mandato ci sarà pure un motivo, in piedi! E lui prendeva il bastone e usciva di casa, ormai aveva smesso di pregare, mica serviva.
La messa delle undici era gremita di peccatori, le anime con la coda, li chiamava. Entravano curvi, guardando il pavimento, si bagnavano appena le dita con l’acqua santa, quasi scottasse. Si facevano un segno della croce svelto, poi prendevano posto il più lontano possibile rispetto all’altare. Come il primo giorno di scuola, arrivavano in anticipo per occupare i banchi più in fondo.
Almeno un tre quarti dei suoi fedeli era gente nuova, alcuni, quelli che ormai erano già stati scoperti, Santiddiononfarmiadareall’infernoperdonamisehopeccato, speravano nella divina assoluzione. Gli altri, quelli che ancora dovevano essere scovati, dicevano a Dio, solo questa, solo questa e poi la smetto, te lo prometto, ma fa che Attilio non lo venga a sapere.

 La fama del sacerdote, L’Orecchio del Signore, si diffuse ben presto in tutta la nazione. I Collosini quando viaggiavano e qualcuno chiedeva loro da dove venissero rispondevano, sto dove abita padre Attilio, sapendo che l’altro poi avrebbe esclamato, ah, a Collosa, c’è stata mia nonna!
Andava così, tutte le volte.
Prete, sei famoso, eh? Non mi ringrazi?
Attilio pensava che il suo nome sarebbe stato ricordato per sempre, di Attilio ce n’era uno, mica come Attila. Fu un venerdì mattina che padre Attilio svegliandosi trovò la zanzara spiaccicata sul cuscino. Probabilmente ci si era rotolato sopra tutta la notte. Di lei non restava che una macchia rossa con le zampe tese verso il soffitto. Forse chiedeva perdono.
Il sacerdote ebbe un capogiro, non riuscì ad alzarsi, bisognava pensare.
Non avrebbe sopportato di essere dimenticato, questo lo sapeva. Ma cosa avrebbe detto al vescovo,  ai pellegrini, o al sindaco quando avrebbero chiesto i suoi stimati servigi?
Gli avrebbero dato dell’impostore.
Non doveva succedere, per nessun motivo. In fondo anche lui aveva fatto del bene. È dai poteri che si giudica un santo? Non doveva compromettersi, non poteva.

Questa  notte Dio mi è apparso in sogno. Fratelli miei, porto dentro un segreto, che se rivelato risulterà mortale per Noitutti. Così ho stretto un patto col Signore nostro, per salvare voi che peccate, l’umanità intera, che ho più a cuore della mia stessa vita. Smetterò di parlare, ho fatto un voto. D’altra parte voi farete i conti direttamente con Dio, che è infinitamente giusto.  Nostro signore  mi vuole mettere alla prova, ancora una volta, se custodirò la Rivelazione fino alla fine dei miei giorni, allora vivrete sicuri, mio amatissimo gregge, lontani dal buio di un destino incerto.

 Così parlò quell’ultima volta.