Ci torno qualche volta, ma puntualmente ogni anno quando la campana delle stagioni segna il mese dei morti. Non che lì si trovi più di quanto non si presenti nella penombra di una chiesa, o nella solitudine di passi che accompagnano, anche nel rumore della città, il risalire tracimante di assenze determinate dalla morte. Ma, proprio perché è di paese, e dunque delimitato, è uno spazio che racconta vicende e incontri; che racconta, nella storia

di un popolo scomparso – età giovani e vecchissime – un bel po’ della storia che mi ha costruito, nello scorrere di volti fissati in un attimo di vita.

Il cimitero del mio paese è oltre l’autostrada, che lo separa dall’abitato: quell’autostrada che, negli attuali interventi di ampliamento, sta erodendo gli estremi limiti di rispetto; e che nell’abbattimento della distanza ancor più cancella con un rumore insistente e sordo il silenzio che gli spetterebbe. Quando era a una sola carreggiata; e senza recinti; e noi ragazzi si aspettava lo sfrecciare solitario di un’auto come un’avventura; e poi la si attraversava da una parte all’altra, come una qualsiasi strada, per entrare nel recinto a mostrarci l’un l’altro i bisnonni, e ad inventarci saghe familiari vere solo per la fantasia dell’età – quand’era così, era tutta un’altra storia. Tra morti e vivi, non c’era separazione. Anche da piccoli, non c’erano paure che non fossero misurabili. Poi il progresso ha cominciato ad imporsi. E quella strada è diventata una disgiunzione. La costruzione di un secondo ponte ha fatto crollare la chiesa lì accanto, che si apriva una volta al mese per la memoria dei defunti: la ricordo soprattutto per le albe che entravano dalle alte finestre, con una luce livida non ancora raggiunta dall’aurora.

Erano le mie rogazioni di chierichetto: finivano lì, nella richiesta di protezione a quei morti che già vivevano nel Signore; e che, da popolo contadino, le passioni del tempo bello e brutto, e dei raccolti scarsi o grassi, avevano essi stessi sperimentato in vita. Macerie di chiesa lasciate lì, e che ancora si vedono attraverso le cancellate antiche che tengono aperto lo sguardo sulla valle. Perché il camposanto della mia storia prospetta sull’Adda nella sua parte più antica (quella nuova batte sull’entroterra), in lievissimo declivio verso il fiume che scorre. È in bella posizione: piacerebbe allo sguardo dei ricchi, che avessero casa lì. E invece si è costruito il giardino dei morti: perché fosse chiaro che la morte, per quel popolo cristiano, non chiudeva nulla, ma preparava – nello sguardo pieno di fede e di speranza di chi visitava le tombe – ben altri orizzonti. Ma uno sguardo non volto all’indietro, uno sguardo che rafferma sul presente da cui veniamo: anche se ciascuno, su date sorpassate e foto sbiadite, sa ricomporre vigorie benevolenze gentilezze, e drammi debolezze meschinità nella propria personale antologia alla Spoon River. Memorie avvolte ormai da pietà o riconoscenza: ma insieme a sbalzare il ritratto di un paese; e di chi vi ha vissuto, e di chi hai conosciuto e stimato, o hai sfiorato per non esserne guastato. È un buon esercizio cristiano vagare per quei giardini della memoria: non per trovare qualcuno, ma per trovare il qualcosa che ha depositato nella tua vita il qualcuno che è ormai altrove.