soliloquio controcorrente

Lei dice, monsignore? Eh, no: ci vuole un po’ di memoria. Tutto è cominciato qualche anno fa, con una donnetta cattolicante che avrebbe attraversato tutto il degrado del tempo presente, dalla presidenza dei deputati alla ribalta di starlette senza più pudori: mentre quella si rizzava contro il cardinal Martini a Milano, i suoi compari comunliberazionardi sbeffeggiavano il rettore della Cattolica, Luzzati, oltretutto ora avviato alla beatificazione. Perché, vede monsignore, non questo o quel partito è oggi da mettere sotto accusa. Ciascuno fa il suo mestiere,

 lo so anch’io: se voglio stare in una condizione privilegiata, quale quella assicurata dalla politica ai suoi dirigenti, bisogna pure che mi dia da fare per avere voti. Se poi lo faccio scrivendo quel che la gggente si vuol sentir dire, o se prometto sapendo di non poter mantenere, è diventata questione di secondaria importanza: lo si è ormai codificato, le bugie in politica non sono peccati. No, sotto accusa ci dobbiamo andare noi cattolici. O meglio, quelli che si dicono cattolici seguendo “fai da te” che – si sia in un supermercato o in una chiesa – è imperativo invincibile oggi. Ah no, monsignore, lo so che lei ha sofferto molto; ma ha parlato altrettanto quando si inneggiava al dio Po, o quando si celebravano matrimoni celtici, da parte di chi porta all’occhiello il crocifisso, ma solo per demolire il prossimo che prega con altro nome il Dio di tutti? Dunque, anche lei sposa la tesi dell’aver saputo parlare alla pancia della gente? Ma quando mai noi dobbiamo seguire i brontolii della pancia? O il “quorum deus venter est” è stato espunto dalle lettere dell’apostolo Paolo? A sentir loro, lei non dovrebbe mai commentare la parabola del figliol prodigo; né ricordare che il proverbio “amore di fratelli, amore di coltelli” è nato da noi, mica altrove. Ma li sente?: padroni a casa propria. Ma quale casa? Quella data in prestito a tutti gli uomini, e da restituire nelle scadenze dei giubilei. E lei si sente sollevato per il vantaggio di non aver più comunisti in parlamento? Ma lei, mi scusi monsignore, dove vive? Innanzi tutto, quali comunisti? Quelli che si riframmenteranno in quattro partiti quattro, ormai attaccati a falci e martelli arrugginiti? o quelli che fin dagli anni settanta hanno mirato ad avere la 127 come status symbol, per arrivare poi ad inseguire tutti i quiz televisivi dove si prendono soldi senza esserseli sudati? o quelli delle barche e del cachemire? O invece quelli che hanno sperato che si avverasse un minimo di giustizia sociale, che è poi il buon gusto di non vedere allargarsi la forbice tra chi prende soldi a sei zeri e quelli a tre – ben sapendo che tre zeri non sono la metà di sei? E poi: meglio fuori? ma dove, monsignore, sulle piazze? Perché non potranno a lungo sopportare. Lo so, lo so, che le alternative non erano poi così nette. Cosa crede? Che non mi sia dovuto stoppare il naso per dare il voto a chi ha mostrato una svolta convincente, e poi non ha lasciato perdere i “no vatican, no taleban”? E solo per un pugno di voti, che ne hanno giustamente allontanato almeno dieci volte tanti? E magari nella direzione di quelle formazioni che si sperava non dovessero più spartirsi lo stesso orticello? E poi: non lasci più che le raccontino la storiella che le televisioni non incidono sui risultati. Non incidono le tribune elettorali, è vero. Ma le televisioni incidono, e come, sugli stili di vita, che giorno dietro giorno vengono impressi – subdolamente ma invincibilmente – dentro coloro che poi andranno a votare: il denaro è tutto, quel che conta è apparire, via lo straniero che mi ricorda che io pure sono straniero a questa terra. Tutte cose che il Cristo non sottoscriverebbe. Eh sì, perché qui dovreste un poco interrogarvi. Dite che la chiesa non si deve schierare: giusto, monsignore. Ma perché alcuni cristiani che si schierano da una parte non sono malguardati come quelli che si schierano dall’altra parte? Perché voi vi sentite più parenti degli uni, e non date chances cordiali e forti anche agli altri? Perché hanno delle impurità che toccano i principi? E i primi no? Che cosa stiamo predicando? Quale evangelo? E a chi? È vero che non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Ma perché dare continuamente le perle ai porci? (a proposito, è un po’ che non sento più questa paraboletta nelle chiese – e quando la sentivo non odorava di buona esegesi). Non vi affannate forse troppo dietro i peccati della debolezza, e troppo poco dietro a quelli della violenza? No, non sono ingiusto, monsignore: non mi cacci nell’angolo con il solito trucchetto prelatizio. Predicare sui tetti è uscire dal latinorum, scendere nelle regioni della quotidianità: ma non per conformarsi alle logiche di questo mondo, ma per disturbarne le grette riduzioni. Come il curato di Bernanos, le confesserò la mia inettitudine soprannaturale. Ma rivendico per lei, monsignore, e per i predicatori del Vangelo l’umiltà che dispone di non condannare, ma di giudicare sì. Costa. Ma se volete gettare un ponte, a partire dalla roccia che Cristo è, non badate a che cosa vi costa. Badate che non finisca sulla sabbia.