La Pasqua è la fine che dà inizio. È la morte che si estingue in un risorto corpo di vita, in occhi finalmente celesti. Poesia? Forse, e solo per chi non coglie la bellezza del desiderio che porta oltre quanto si vive, per quanto si sia vissuta una vita piena. Ho letto di una vecchina sul letto ultimo. Serena. O splendente, se non vi sembra esagerato per quel momento. Al parroco che era lì ad accompagnarla dice: “Sa, il Signore mi ha donato una vita bellissima

. Sono pronta a partire”. “Lo so” mormorò il prete, con l’accento di chi non vuol forzare l’avvenimento. “Lei mi dovrà fare un ultimo piacere. È qualcosa che desidero tanto: mi seppelliscano con un cucchiaino in mano”. “Un cucchiaino?”. Le sorprese per un parroco sono sempre imprevedibili, ma quella… “Perché vuol essere sepolta con un cucchiaino in mano?”. “Mi è sempre piaciuto, ricorda?, partecipare ai pranzi e alla cene delle feste in parrocchia. Mentre prendevo posto, guardavo subito se c’era il cucchiaino vicino al piatto. Sa che cosa voleva dire? Che alla fine sarebbe arrivato il dolce o il gelato”. “E allora?”. “Significava che il meglio arrivava alla fine! E proprio questo che voglio si dica al mio funerale. Quando passeranno vicino alla mia bara si chiederanno: Perché quel cucchiaino? Voglio che lei risponda che io ho il cucchiaino perché sta arrivando il meglio”.

Può essere che il meglio di un film sia dopo la parola fine che si stampiglia sullo schermo? Mi succede, quando sono nel ventre nero di un cinema, di non capire perché debba essere l’ultimo e il solo a lasciare la sala: con l’incaricato delle pulizie a incombere gufando, lo spazzolone in mano; e con gli altri, tanti o pochi, che si sono eclissati prima ancora che sparisse il buio. Eppure, mentre scorrono i titoli, si spiega tutto il tema musicale del film: quelle note che hanno saldato, solcato, e scosso le immagini; e che hanno infuso profondità ai dialoghi. È il momento della sintesi, e viene snobbato come fosse un di più, e non ciò che completa, e talvolta chiarisce, quanto è successo tra lo schermo e la psiche. Che si tagli in tivù, si capisce: il tempo è denaro, anzi pubblicità, e dunque quattrini. Non sono un musicofilo, ma ponete mente la sua bellezza, ch’è grande sì per construzione … sì per lo numero de le sue parti, che si pertiene a li musici (Dante). Il decidere di uscire verso un cinema, è chiedere un evento: se mutilato da quelle sinfonie appositamente create sui testi e sulla regia, è interrompere una genesi. E dunque la rinascita che ogni opera d’arte, anche di non eccelse stelle, riesce a compiere. Dunque un fine che non finisce, ma in certo modo apre: per rientrare nel ventre dei giorni con un’energia diversa. Anche per un film il meglio viene dopo la fine.

Come per la vita. Ma come rendere ragione di questa speranza? Della speranza della resurrezione finale? Come trasmutare i sorrisi beffardi di tanti che si credono intelligenti, e non attingono alla sapienza del cuore? Che il fuoco e l’acqua e la luce della notte pasquale li raggiunga: ne siano aspersi, e illuminati; e lascino finalmente che bruci la loro paura di essere sopraffatti da una verità diversa da quella che accanitamente stringono: se il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero.