secondo soliloquio controcorrente

Lei dice monsignore? Che il nostro popolo non è xenofobo? Che è solo questione di ordine su cui tutti possiamo essere d’accordo? Sull’ordine siamo d’accordo: nel disordine si propagano illegalità, è vero. Ma quale è il confine? Ha visto a che cosa ci ha portato l’ascoltare la pancia della gente? L’ha visto a Napoli? Come si fa a non rabbrividire in questa analogia fra il trattamento dei rifiuti e il trattamento di esseri umani? Perché lì bruciano le loro monnezze

sotto casa, provocando diossine irrespirabili, e senza paragone con gli inceneritori che non vogliono. Per protesta, certo. Ma per protesta fanno lo stesso con gli zingari: una caccia all’uomo, forse una prova generale da pogrom, di quello che potrebbe succedere in altre città. Che sta succedendo in questi giorni nella periferia di Milano. Che è successo a Livorno qualche mese fa: i bimbi degli zingari possano atrocemente morire come i nostri, ma chi se ne ricorda più? Che le loro ragazze siano violentate dai nostri figli, lo leggiamo molto più in piccolo, e non lo mettiamo in memoria. Esagero? Eh, no, monsignore che non esagero. Ebrei e zingari sterminati da un odio covato per anni. In quell’incendio napoletano ben circoscritto (ha letto sulle cronache che gli orti attorno non sono stati lambiti da nessuna fiamma?) si alza una diossina degli animi che avvelena al punto di inscenare una festa a baccanale. A ottundere ancor più le menti. Va bene l’ignoranza, ma un po’ di distinzioni vanno fatte in quell’arcipelago che chiamiamo zingari. Eppure le confesso che io sto tra quell’ottantacinque per cento di italiani che non hanno simpatia per loro (e loro per me sta nelle zingare, bambini a tracolla, che ti tallonano fino all’esaurimento – o quelle che entrano subdolamente in casa per impossessarsi dell’oro di famiglia – o quelle che se non ti lasci leggere la mano ti fanno inseguire da inefficaci ma fastidiose maledizioni). Non lo dico a lei che sa, ma lei dovrebbe anche far sapere che diverse sono le etnie di zingari, e vari i gruppi: rom, sinti, kale, manouches, romanichals, jenisch (tanto per dire che quando si parla di nordItalia, ci stanno i piemontesi e i veneti, e i bresciani e i bergamaschi – e provi lei a dire che si sentono uguali). La loro lingua si chiama romani, parlata in innumerevoli varianti dialettali. E’ una lingua che ha origine dal sanscrito. E, pensa un po’, rom nella loro lingua vuol dire “persona”: per dire una cultura che oggi è proprio negata nei loro confronti. E infatti: non una zingara ha rubato un bambino – e dunque lei sia segregata – ma gli zingari rubano i bambini (titolo di prima pagina, con doppio paginone a seguire, di un giornale che molti suoi parrocchiani leggono quotidianamente). Come se si titolasse: le mamme uccidono i figli, le badanti picchiano gli assistiti; che gli abitanti di Erba si uccidono tra loro, le ragazze ammazzano le suore, e i poliziotti sparano alle mogli. Ricorda monsignore quando qui da noi ci si ripeteva: i meridionali sono brutti, sporchi, cattivi, e naturalmente lazzaroni? Tutti affastellati nell’ombra di qualcuno di loro, lifròc o delinquente. Poi se ne sposavano le figlie, accorgendosi che erano madri attente tanto quanto, se non di più, delle nostre, e pulite e lavoratrici. Se non si distinguono i rumeni dai rom, vuole che si distingua tra rumeno e rumeno, tra buono e cattivo? Per un rumeno che violenta, ce ne sta uno che salva una ragazza italiana da uno stupro; o ci sta l’annegamento di un clandestino dopo aver portato a riva due piccoli – e hanno raccontato di aver visto allontanarsi dalla spiaggia i genitori dei bambini salvati senza preoccuparsi del destino del loro salvatore: e saremmo noi il popolo civile? Non si sta giocando a pari e patta, d’accordo, ma insomma un minimo di intelligenza dell’umanità non dovrebbe essere esemplificata con più forza dai nostri pulpiti? Invece di quella predichine all’acqua di maggio che invoglia la dormitio degli astanti? e li lascia ostinati dentro le loro certezze? Sì, ma siamo a casa nostra. Ma chi vogliamo tener dentro, monsignore? Perché non sappiamo dire ad alta voce, nelle nostre chiese, a chi non sente la vocazione dell’accoglienza cristiana: volete andarvene anche voi? Così si sconfigge il buonismo insulso: perseguendo chi sbaglia per correggerlo – ma lui, non la sua tribù –, e sbattendo in faccia ai cristiani che non sono di Cristo. Le statistiche dicono che siamo il paese più sicuro d’Europa. Ma tant’è: nella percezione – terribile sentimento contemporaneo, che sconfigge la realtà – non conta nulla. Ci stanno gli eventi singoli, che rimbalzano da un capo all’altro della penisola megafonati dai nuovi untori, e demoliscono le statistiche a favore di un sentire che non distingue. Ci stanno i loro, i diversi da noi, accomunati senza più responsabilità personale: tutti o zingari o rumeni (o terroni – perché, si è spostato il tiro, ma sotto sotto, ci sta ancora tutta la diffidenza). Su questo sono manzoniano: la gente, quando si mette insieme non ragiona, spreca il pane. E arriva a uccidere. Cominciando dal costruire muri, per lasciare al di là i loro. Ma finché un bambino dovrà aggrapparsi per vedere il mondo, non ci sarà pace.