Mi sto accorgendo di star bene durante le vacanze. Cosa ovvia, mi è stato detto. Ma finora per me non è stato così scontato, se è vero che lo registro. Il che potrebbe voler dire che in passato non ho mai fatto bene le vacanze: mi è successo di andare, decidendo di non lasciar indietro niente, lo riconosco. Un po’ come se i discepoli, chiamati in disparte da Gesù, si fossero messi vicino a una finestra per non lasciarsi sfuggire ciò che continuava a vivere là

 da dove si erano ritirati.

Ma potrebbe anche voler dire che comincio a sentire il peso della fatica nel ritorno alle cose di sempre: e allora le cose si complicano. O perché potrebbe essere un’avvisaglia dell’età (a questa motivazione ancora non mi rassegno, anche se la tengo nel conto); o perché il lavoro non ti soddisfa più: e non tanto per ciò che fai, ma per come sei chiamato a fare.

Una parrocchia logora, checché ne dicano gli addetti ai lavori (gli addetti da tavolino, perché quelli che stanno in cantiere queste cose le pensano anche se non trovano il coraggio di scriverle). Logora la diversità delle persone, che hanno richieste diverse, se non talvolta contrastanti rispetto alla missione della Chiesa. Logora l’appesantimento delle strutture, a cui si deve far fronte con un volontariato che non in tutti ha la caratteristica fondamentale della gratuità che nasce dalla fede – e dunque è totale. Logora il cambiamento epocale che stiamo vivendo tutti, giovani e meno giovani, senza volerne accettare i condizionamenti rispetto alla tradizione di un Annuncio che è stato per troppo tempo fissato dentro un corpo ingessato: cambiando temiamo di sbagliare, e dunque sbagliamo nel non correre il rischio di cambiare.

E nella rincorsa che prendi ad ogni rientro, per non lasciarti fermare da questo logorio, succede che ti viene il fiatone. E la mancanza d’ossigeno ti mette in angoscia: riusciremo a fare tutto con tutti, o almeno con quelli che ci stanno? O ti convince a mantenere gli stessi itinerari collaudati, gli stessi incontri, le stesse predicazioni di sempre. E ti fa dire cose che non puoi pensare, che non appartengono alla teologia ecclesiale: voi giovani siete la speranza della Chiesa. Solamente una paura di perdere la loro gioventù può far sbagliare così clamorosamente: perché è la Chiesa la speranza dei giovani, e non viceversa. Che è l’unica verità, anche se scomoda da annunciare: riproporre la differenza di quelli che credono, per essere modello di qualcosa che è coerente con il Vangelo e dissimile dalle cose del mondo.

Riflessioni che partono da corpo e mente alla fine d’un’estate: dagli elementi soggetti all’usura del tempo che si vive, e ti muore addosso. Ma l’anima, la mia e la vostra, è lì intatta nella sua qualità divina. Senza alcun logorio nel suo distendersi allo Spirito del Signore. A sperare in una fede meno rassegnata al mondo e a credere in una speranza meno populista. Il sole un po’ pallido di questo settembre, che ha trasfuso la sua forza nei grappoli dell’uva turgida, resta pur sempre la palla di fuoco che è.