Anche a voler puntare i piedi perché non avvenga, uno quel giorno sente la bontà risalirgli da dentro: da luoghi sconosciuti della sua prima ingenuità, quella non corrotta dagli incontri e dalle attese vane, quella che riporta al cuore i desideri che non sono di carne. Eppure il Natale è festa del corpo dell’uomo, poiché Dio homo factus est. Un bambino che piange, un bambino abbandonato tra le braccia di una mamma giovane,

è il nostro Dio venuto dalla profondità dell’eternità.

Una famigliola che non ha fatto nulla di male, per vedersi chiudere tutte le porte di Betlemme. Un Signore fermato alle soglie dell’anima, prima ancora che bussi, è il nostro Dio venuto a piantarsi tra noi. Un Salvatore di cui si rinnega l’esistenza, il Figlio di un amore che non ha bisogno di seme d’uomo. Splende la luce dalle tenebre, ma gli occhi degli uomini non giudicano il mondo con gli occhi di Dio. I suoi, quelli della sua intimità, non lo accolgono come ospite dolce dell’anima, dolcissimo sollievo. E le speranze continuano ad essere racchiuse negli spazi angusti della terrestrità.

Eppure, quel giorno, al vecchio più vecchio che ci sia, risale da dentro un desiderio di bontà, che le sue mani e la sua lingua non possono contenere. Perché il miracolo di Dio fatto uomo è il suo cuore che batte dentro il nostro corpo, e la sua linfa che irrora ogni fibra a ridare la vita. E’ lui che sconvolge il vuoto di chi vuole appassire, lui che rimette nella battaglia chi si chiama fuori. Lui, l’ospite dolce, che ha abbandonato l’onnipotenza nel più alto dei cieli, e tuttavia insegna la forza perché nessuno si perda di coloro che gli sono stati affidati. Lui, il dolcissimo sollievo, che stacca dalla croce le braccia perché nessuno sia abbandonato al male.

 

Avrà profumo di muschio, e suono di cornamuse, il natale di ogni uomo, come il Natale del Dio che mettiamo nel presepe? Con la tenacia di chi sa che Dio è ormai vivente in mezzo a noi, non rinunciamo ai monti di cartapesta, e ai ruscelli che scorrono in specchi rotti, e ai focherelli pitturati su scaglie di pietra. Non rinunciamo al sogno di una terra che trova la sua pace nelle piccole cose che non ci sono più. Per un giorno, quel giorno, è lecito, è doveroso, ritrovare i sogni spezzati, la terra che avremmo voluto ad accogliere Colui che per sempre è venuto dall’estremità dell’infinito.

Per un giorno facciamo finta che non esistano ferraglie di guerra, e lezzo di discariche, ad accogliere i figli degli uomini che s’affacciano per la prima volta alle soglie delle nostre case. Per un giorno, per quel giorno, è lecito e doveroso immaginarci diversi da come siamo. Per riprenderci la speranza che sconfina su un lato nell’Eden, e sull’altro nel Paradiso.

E vestito di niente stia nel presepe della nostra anima quel giorno, Colui che abbiamo nascosto per troppi secoli sotto i drappi della distanza: anche nella trepidazione delle nostre impurità, a pensarci con il corpo di risorti, che la sua venuta ci ha definitivamente ottenuto.

ottobre ’96