Chi può dire se fosse un’ironia, o solo una coincidenza, migrare nel giorno dedicato a chi aveva diviso il suo mantello? Era a san Martino infatti che un tempo i poveri facevano sanmartino. (Scaduto l’affitto della casa o del negozietto, o la dipendenza in mezzadria, si era costretti a migrare, a sradicare sé e la famiglia dai vicini dove la solidarietà non aveva più

 l’umiliazione degli inizi, per ricominciare da un’altra parte a mostrare, mentre si tentava di nasconderlo, il proprio bisogno. I piatti dei vicini già sistemati non sarebbero mai mancati, avvolti la domenica in nitidi tovaglioli bianchi: ma il rossore di non poter rifiutare quel cibo che non si era guadagnato era struggente quanto la dignità di un povero).

Questa parentesi non c’entra quasi nulla con quello che vi voglio raccontare. Se non che era l’11 novembre di ormai cinque anni fa, quando ritornavo dal Vescovo dopo una settimana per sentirmi dire che lui non aveva cambiato la scelta, nonostante le mie titubanze. E così sono stato mandato a Santa Lucia. Debbo confessare che è stato più pesante pensarci alla vigilia, che starci in questi anni. Succede a molti, e per tante altre circostanze della vita, quando è chiesto un cambiamento. Ma a me è successo non solo di ritrovare il mio Signore qui – e non poteva essere altrimenti – ma di trovare qui una compagnia che avrebbe alleggerito anni di intensa laboriosità. Il bene che era avvenuto nel passato, le energie ancora presenti, le speranze di chi voleva ricominciare: ottimo viatico per me, per sconfiggere le spontanee difese in un ambiente che solo per il fatto di esserti nuovo si presenta ostile.

Se chi lavora con te lo fa in modo amicale, le difficoltà s’appianano: sta dalla tua parte comunque, e con lui la fatica si scioglie. Il dono di una compagnia in tantissimi collaboratori è stato il tesoro trovato, per il quale vendere tutto: gente gioiosa, disponibile, gente sul piede di partenza. Persone che non chiedono altri riconoscimenti che quelli di un dovere compiuto; che non chiedono affettività isolanti, sguardi penetranti alla guru, rassicurazioni da pacca sulla spalla: insomma, tende da piantare per star bene tra noi. Gente che non ha chiesto al prete di essere altro che un compagno di strada, lui stesso uno da sostenere quando indica oltre gli affari e gli affetti di questo mondo. Perché sia lucido e consapevole che non sta portando un gregge per sé. Con gente così è stato bello lavorare nel campo del Signore. E non a caso uso – per la mia presenza di pastore, – il termine lavoro: il Vangelo usa campi, vigna, operai, e mare e pescatori; e la Chiesa è oggi il terreno da vangare e da seminare.

Se invece lavori con uno che ti è ostile, la fatica raddoppia. Sfiancante è la diffidenza di chi vive di nostalgia, attraccato a un modo di essere Chiesa che si identifica nella terra e non nel Regno, in un metodo piuttosto che in una meta, in un prete piuttosto che in Cristo. Ma sono pochi: e non meritano che si sottolinei la loro fatica con più di cinque righe.

Perché anche loro appartengono alla compagnia della Chiesa. Perché loro, più degli altri, avvertono sul rischio delle appartenenze non tradotte in virtù, e sulla difficoltà della fedeltà quando non si nutre di ascolto. Loro più degli altri non trovano chi li consoli.

La prima ospitalità è accorgersi di loro: sono orfani di compagnia.