I fatti sono lì. Tre fatti: i due più antichi, un intermezzo, e gli eccidi di oggi. Dentro la cronaca di questi ultimi mesi, si sono intrecciati il passato remoto del caso Priebke, il passato prossimo del terrorismo rosso italiano, e il presente degli eccidi nella ex-Jugoslavia. Accomunati da un filo rosso: perdonare o giustiziare? Primo. C’è un ufficiale nazista incaricato della conta di dieci italiani per ogni tedesco ammazzato: obbedisce, ma obbedendo obbedendo ne scappa qualcuno in più,

e trecentotrentacinque persone spariscono in una sola notte in una cava presso la chiesa del Quo Vadis. “Che non sia trattato lui meglio di noi”, dicono. Secondo. C’è un commissario ucciso – il Calabresi, contro cui si son fatte campagne di istigazione al delitto per il sospetto non fondato che abbia lui defenestrato dalla questura di Milano l’anarchico Pinelli durante gli interrogatori per la strage di piazza Fontana; e c’è un venditore di frittelle, che con il suo pentitismo fa condannare tre suoi ex compagni di Lotta Continua. “Perché ormai non tirar di lungo su quel periodo, perché non pacificarsi con chi è stato sconfitto, perché non capire le ragioni degli altri?”. L’intermezzo è dato da un non infierire proclamato dal Rabbino capo di Roma, in nome di Dio misericordioso; ma si prende tali reazioni innanzi tutto dai suoi correligionari, da mettere subito la cosa in sordina su tutta la stampa. Il terzo fatto è la nuova Norimberga per i genocidi perpetrati da uno psichiatra pazzo (pazzo?), e un generale sordido, solo l’altr’anno e solo a pochi chilometri dai confini di paesi civili che sono rimasti pressoché immobili, in una guerra che ha distrutto il poco di buono che un regime a realismo socialista aveva procurato a Croati, Serbi e Bosniaci.

La tragedia vera di fatti come quelli delle fosse Ardeatine – e di tutti gli altri – non sta in quello che è avvenuto. Se si dovesse seguire una gerarchia degli orrori, la rappresaglia tedesca a seguito dell’attentato di via Rasella in Roma si collocherebbe certamente molto dopo i campi di sterminio nazisti: qui c’è stato l’odio programmato, là una reazione certamente disumana ma consequenziale alla logica del diritto di guerra. Finché non si mette “davanti agli uomini” la guerra, tutta la guerra, la tragedia resta: nel perseguire singoli individui si dà solo una momentanea pausa alla propria sete di vendetta, ma si lascia intatta la lacerazione, e il gusto del sangue di altri capri espiatori. Pur se dà fastidio anche solo pensare ciò che si sta leggendo, occorre coraggio nell’ammettere che le cose stanno così: a inseguire il pareggio dei conti, non se ne esce. E qui la remissione proposta dal Rabbino, per mostrare che la forza di chi crede sta ben oltre i conti umani, si è incontrata forse per la prima volta con il perdono cristiano: così incondizionato, così controcorrente. Così divino da essere inevitabilmente contro il pensare umano. E si è trovato nello stesso angolino di un Dio che nel mondo è oggi reso minoranza.

Al presente è chiesto di ricomporre nella ragione quei misfatti dell’uomo contro l’uomo. E la ragione è chiesta alla giustizia degli uomini, quella dei giudici e dei tribunali, quella degli uomini che si mettono “davanti agli uomini”. Ma già Hegel diceva: la tragedia umana non sta tanto nello scontro tra una ragione e un torto, ma tra ragioni diverse! Come uscirne?

Non sarà che occorre riprendere la parola perdono e declinarla come si conviene ai cristiani? Non sarà che occorrerà coniugarla in maniera diversa con la parola pentimento, che per i cristiani nulla ha a che fare con il pentitismo? Per i cristiani perdonare è un atto di forza: esattamente l’opposto di come è inteso dagli uomini, una debolezza. Perché perdonare non è dimenticare, ma resistere alla voglia di restituire il male pur avendolo continuamente davanti agli occhi del cuore. E pentimento è azione che tocca la coscienza del proprio male a tal punto da non volersi sottrarre alla pena; è azione del segreto, è l’atteggiamento del pubblicano che non si proclama davanti agli uomini ma davanti a Dio in fondo al tempio. Perdonare è arrendersi alla stessa gratuità di un Dio che ti ricambia al cento per uno: non logorando la tua vita all’infinito, così come logora l’acre memoria del torto subito e la assurda fragilità dell’occhio per occhio.

Dare il perdono vero a uno come Priebke è metterlo in condizione di chiedere, lui, di restare prigioniero, per dare il segno vero del pentimento: in fondo al tempio della vita, per testimoniare, a chi si dimentica, il male che non può essere ripetuto.

Senza quella verità – del perdono e del pentimento – ci si rassegni alla giustizia umana.