I bambini vedono ogni anno quindicimila morti violente in tv: eppure sono tenuti lontano dal nonno morto. I defunti sono commemorati con monumenti costosi dentro i cimiteri, ma fuori, la città non vuole essere disturbata dal loro ultimo passaggio: pochi ormai accennano a un segno di croce, pochissimi fermano l’auto, alcuni sorpassano e s’incuneano come fosse una qualsiasi coda. Si accettano i rumori al di sopra di ogni sopportabilità igienica: ma si lasciano mute le campane che annunciano l’agonia di un fratello,

il venire della morte nei quartieri. Ci riesce difficile pensare a una possibile elaborazione di quello strappo: e intanto si lascia che esigenze sindacali definiscano un “peso improprio” la salma dei nostri cari, depositandola così su un inestetico carrello che la trascina lungo la navata della chiesa. Non si pensa più la cremazione come un’ostilità alle leggi della Chiesa: ma, sotto la motivazione ecologica che la vuole meglio del seppellimento (cosa per altro neppur vera), sta un’inconfessata sottrazione agli oneri futuri di quella morte. A parole disposti a tutto, ma di fatto infastiditi da quell’evento: insomma, potevi evitarmi il fastidio della tua morte.

Negandone i corollari, si tende a negare la morte: senza riuscirci, ovviamente, dato che di nessun fatto vi è uguale e iscritta certezza in tutte le coscienze. Ma tentare di negarla è all’origine di come si vive la vita: non come un dono, ma come un possesso; non come una meraviglia, ma come una conquista. La morte è dunque la più grande insensatezza, da affrontare negandola. Si lamenta, è vero, da più parti la privatezza e l’anonimato dei luoghi nel morire, lontano dalla propria casa, in un letto forestiero, spesso senza la presenza di una mano familiare ad accompagnare nell’oltre: ma essi sono l’ovvia conseguenza di una incomprensibilità che solo la fede può illuminare. Un film di qualche anno fa, stranamente sparito dalla circolazione, descriveva mordacemente il trattamento del caro estinto in America: un costoso processo di imbalsamazione, di trasfigurazione estetizzante del morto; una funzione religiosa precotta in canti e preghiere affrettatamente sbrigate; una strabiliante sparizione tipo assunzione al cielo. Un dolore inscatolato, negato: l’unica volta di un sentimento che esagera il pudore fino alla cancellazione dell’evento stesso. Di altra fattura, ma di uguale intendimento, gli ultimi film di origine next-age: si inventa una vita post-mortem, non nel profondo dei cieli, ma nella palpabilità dei terrestri giardini. Evidentemente, un modo di affermare ciò che non si riesce a intravvedere nella sua pienezza. Ma con una povertà di senso che inevitabilmente rimette da capo.

L’unico luogo dentro cui la morte sembra riprendere il suo dolce mistero è oggi il funerale cristiano; l’unica occasione offerta per superare la finzione delle mille morti del sistema mediatico: l’unico momento pubblico che è rimasto, nella drastica espulsione della morte dalle coordinate del quotidiano. Se celebrato nei segni della Chiesa, rende visibile ai vivi – ai fedeli e ai molti che attraversano la soglia altrimenti ignorata – lo smarrimento dell’uomo, e la presenza di una speranza. Per questo, occorre piegare anche il linguaggio alla realtà. Non esiste un funerale bello; ma può dirsi di un funerale che è solenne: e non per la presenza bardata delle istituzioni, ma per la sobrietà con cui si svolge, per la pacatezza che diffonde, per l’assenza di ogni fretta. E lo si può chiamare cristiano se lì la memoria più importante è quella del Signore Gesù, l’uomo morto e risorto, senza tutto aggrovigliare attorno al ricordo del defunto, delle sue virtù reali o presunte. Non è l’etimo suffragare che contiene soccorrere, raccomandare, approvare? Le azioni, in altre parole, di una Chiesa radunata che nell’Eucarestia dà aiuto a chi non ha più bocca per implorare, e confida nella remissione dei peccati del proprio fratello, prendendo testimonianza dal bene che per grazia ha attraversato quella vita?

Si tratta dunque di non nascondere la morte nelle nostre città, per non nascondersi alla morte quando tocca più da vicino. Di imparare a consegnarsi al grande mistero a cui essa apre. I catechisti, dei piccoli e degli adulti, possono trovare la novità del loro compito in questa sfida: la fede nel Risorto, che cambia lo sguardo sui giorni e le loro opere, è mostrare la morte senza impaurite censure e senza vuote esibizioni.